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Rodolfo Bosi
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Home Approfondimenti

A 30 anni dalla messa al bando dell’amianto, solo il 25% della fibra killer è stato rimosso

29/04/2022
in Approfondimenti, Archivi, Governo del territorio, Natura, News, Piani territoriali
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A trent’anni esatti dall’approvazione della legge 257/1992, che in Italia ha messo al bando l’estrazione, l’importazione, la produzione e commercializzazione di amianto e di prodotti che lo contengono, di fatto nel nostro Paese «si continua a morire di amianto», dichiara con amarezza Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente.

Gli ambientalisti del Cigno verde riportano i dati aggiornati del Rapporto del registro nazionale dei mesoteliomi (Renam), denunciando che, degli oltre 31 mila i casi di mesotelioma pleurico registrati dal 1993 al 2018, l’80% è dovuto proprio all’esposizione alle fibre d’amianto; i dati riportati invece dall’Osservatorio nazionale amianto (Ona), che tengono conto anche delle altre patologie legate all’esposizione di fibre d’amianto, parlano di circa 7mila morti all’anno nel nostro Paese.

Ma oggi appena «il 25% della fibra killer è stato rimosso e, continuando a questo ritmi, per liberarsene serviranno altri 75 anni, cui sommare ulteriori 40 anni di latenza del mesotelioma», aggiungono da Legambiente.

Da Nord a Sud, del resto, le bonifiche vanno a rilento sia per quanto riguarda i grandi siti industriali dell’amianto sia per gli edifici pubblici e privati che espongono spesso inconsapevolmente le persone a questa pericolosa fibra.

«La situazione è sempre più drammatica e conferma la necessità di cambiare rotta, con provvedimenti incisivi, e non più prorogabili – sottolinea Minutolo – nella direzione della messa in sicurezza e la bonifica degli edifici e dei territori contaminati e della promozione di campagne di informazione e sensibilizzazione ad hoc rivolte ai cittadini. Infatti, nonostante la sua forza distruttiva, l’argomento amianto, non sembra essere una priorità per il Governo, che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) trova accenno solo in riferimento agli investimenti nel parco agrisolare, bruciando ogni chance di destinare preziose risorse nella sua lotta e sancire così il primato della salute dei cittadini e della difesa dell’ambiente».

Che cosa servirebbe, invece?

Oltre alle risorse economiche per le bonifiche, a partire dagli edifici pubblici, servono discariche adeguate per smaltire in sicurezza i rifiuti contenenti amianto che inevitabilmente derivano dalle bonifiche; una volta sotto terra, se correttamente gestito, l’amianto torna infatti a comportarsi come un normale minerale.

Il problema è che ovunque è difficile realizzare nuove discariche allo scopo, ostacolate da varie sindromi Nimby e Nimto che bloccano la costruzioni di impianti per gestire in sicurezza i rifiuti, lasciando così paradossalmente l’amianto all’aria aperta: a fronte di 108.000 siti interessati dalla presenza di amianto stimati dall’Inail, le discariche operative in grado di gestire i rifiuti contenenti amianto sono solo 19 in tutto il Paese.

Una criticità evidenziata tra gli altri proprio dal ministero dell’Ambiente nel 2017, durante una conferenza organizzata dal M5S alla Camera, e all’interno dell’ultimo report dedicato da Legambiente all’eterna emergenza amianto.

Anche  il poco amianto bonificato prende in larga parte la via dell’estero, come testimoniano gli ultimi dati Ispra:  i rifiuti d’amianto complessivamente gestiti nel Paese si sono fermati a quota 275mila ton nel 2019, cui si aggiungono 28mila ton esportate (di cui 26mila ton sono finite di nuovo nelle discariche tedesche).

Ma a questo ritmo le bonifiche non finiranno mai: secondo l’Ona in Italia «ci sono ancora 58 milioni di mq di coperture in cemento-amianto, oltre a 40 milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto, con conseguente condizione di rischio».

(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 28 aprile 2022 sul sito online “greenreport.it”)

 

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