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Rodolfo Bosi
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Home Approfondimenti

Caro energia, Cingolani riaccende sette centrali a carbone: la produzione dalle fonti più inquinanti salirà del 125% rispetto al 2021

07/09/2022
in Approfondimenti, Archivi, Governo del territorio, Natura, News, Piani territoriali
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Dopo il riavvio a febbraio, è ormai imminente il lancio a tutta potenza delle centrali a carbone almeno per due anni.

Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, sta per firmare l’atto di indirizzo che ufficializzerà una decisione annunciata ormai da tempo e per la quale si aspetta ora solo l’ok all’aumento di capacità degli impianti da parte di Terna, a cui sono affidate le verifiche tecniche.

Nell’elenco delle centrali da sfruttare al massimo ci sono sette impianti, praticamente quasi tutte quelle ancora in funzione ma che secondo il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) avrebbero dovuto essere dismesse o convertite entro la fine del 2025.

Su sette, tutti di potenza superiore a 300 megawatt, almeno quattro sono da far partire subito a pieno ritmo.

In primis, quelli di Brindisi (2.450 Mw), Fusina (875 Mw), Venezia e Torrevaldaliga (1.980), Civitavecchia, tutti di Enel, e la centrale di A2a a Monfalcone, in Friuli-Venezia Giulia.

Ma nell’elenco si sono anche l’impianto Enel di Portovesme, anche questo in Sardegna, la centrale di Termini Imerese e quella a olio combustibile di A2a di San Filippo Del Mela (Messina).

L’elenco dei sette impianti serve anche a giocare d’anticipo rispetto a eventuali strette da Mosca, che potrebbe bloccare totalmente il flusso di metano.

Dopo le verifiche tecniche e la firma del ministro, sarà sempre il gestore della rete elettrica nazionale a dare il via libera agli operatori.

I conti sul gas risparmiato – Non è dunque bastato il fatto che la dipendenza dal gas di Mosca sia scesa drasticamente, negli ultimi sei mesi, dal 40 al 18%.

“È stato stimato che la massimizzazione della produzione a carbone e olio delle centrali esistenti regolarmente in servizio – si legge nel piano nazionale di contenimento dei consumi di gas naturale – contribuirebbe a una riduzione di circa 1,8 miliardi di Smc (Standard metro cubo)” per un periodo di otto mesi, ossia dal 1 agosto 2022 al 31 marzo 2023.

“Sotto l’ipotesi di massimizzazione del potenziale – prosegue il piano – a partire dal mese di ottobre 2022, si eviterebbe il ricorso al consumo di gas per circa 290 milioni di metri cubi di gas.”

Iniziando, invece, da novembre “sarebbe di poco superiore a 200 milioni di metri cubi di gas”.

Calcoli eseguiti assumendo un rendimento di produzione termoelettrica del 56,4%, come dalle analisi Enea sui potenziali risparmi nel settore residenziale.

Se già nel 2022 si prevede una produzione di energia dalle centrali a carbone e olio più che raddoppiata rispetto al 2021, il decreto dovrebbe portare a un incremento fino al 25%.

In pratica, da questa misura è stimato un contributo complessivo di risparmio di gas “nel periodo di riferimento” di 2,1 miliardi di metri cubi di gas naturale.

Una parte consistente della quota che il governo italiano punta a risparmiare e che, a seconda delle stime, va dai 3 ai 6 miliardi di metri cubi l’anno di gas.

Il prezzo da pagare – Tutto questo non certo senza conseguenze.

“Stiamo cercando di usare più carbone, che non è una bellissima cosa, ma nell’immediato ci aiuta” aveva detto a Cernobbio il ministro dell’Economia, Daniele Franco. 

Basti pensare che la centrale di Torrevaldaliga produce in un anno oltre 8 milioni di tonnellate di CO2: significa il 78% dell’anidride carbonica emessa con la produzione energetica di tutto il Lazio.

D’altro canto già dieci anni fa, in uno studio sulle centrali a carbone Legambiente osservava come nel 2012 “a fronte di un contributo pari al 16% della produzione energetica italiana” le centrali a carbone avessero contribuito al 35% alle emissioni di CO2.

Per ogni kWh prodotto dalle centrali a carbone italiane, calcolava, “vengono emessi 857,3 grammi di CO2, contro i 379,7 di quelle a gas naturale e a fronte delle emissioni zero delle centrali solari, eoliche, idroelettriche, geotermiche a biomasse”.

E ricordava che la combustione rilascia un cocktail di sostanze dannose (tra cui arsenico, cromo, cadmio, mercurio, polveri sottili) che coinvolgono un’area molto vasta intorno alle centrali.

Il gioco vale la candela?

“Pensare di riattivare gruppi termoelettrici a carbone o a olio combustibile è un’opzione irrilevante”, scrivevano a febbraio scorso Legambiente, Greenpeace e Wwf, sostenendo che “se pure ripartissero 1.000 MW di potenza installata, aggiuntivi a quelli già in attività, con questi due combustibili fossili, ad esempio per 5mila ore all’anno, si potrebbero produrre 5 TWh all’anno, che nei fatti permetterebbero di risparmiare solo un miliardo di metri cubi di gas fossile all’anno.

Praticamente nulla, al confronto del contributo che garantirebbe lo sviluppo strutturale e convinto delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, del sistema di pompaggi e accumuli e della rete di trasmissione e distribuzione”.

(Articolo di Luisiana Gaita, pubblicato con questo titolo il 6 settembre 2022 sul sito online “Ambiente & Veleni” del quotidiano “Il Fatto Quotidiano”)

 

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