
Do you remember the climate change?
Già, perché nel mondo al contrario delle grandi autocrazie, la temibile minaccia climatica è letteralmente scomparsa dai radar, e il riscaldamento globale che innesca catastrofici impatti che fanno e faranno più vittime e danni delle guerre, non è percepito come un interesse strategico da condividere attivando immediate azioni di mitigazione, difesa e adattamento.
Al contrario, nel grande puzzle mondiale, anche i 56 conflitti militari in corso con 92 Paesi coinvolti, il numero più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, inviano nella prima atmosfera quote di gas bellici-serra che contribuiscono a far schizzare in alto il livello del riscaldamento globale, produttore di inesorabili persistenti ondate di calore e siccità o esplosive alluvioni o rialzi delle acque marine.
Tutta l’attenzione mediatica globale è sulle guerre commerciali e guerre guerreggiate che ridisegnano nuovi equilibri muscolari e bellicosi, col riarmo come orizzonte futuro, anche europeo.
Negli arsenali si stivano sovrapproduzioni di armamenti per war games come non accadeva dalla fine della Guerra Fredda, e al momento non c’è clima per una riduzione di CO2 atmosferica.
L’opinione pubblica, non a caso, restituisce sentimenti di rassegnata impotenza.
Il riscaldamento globale, insomma, mai come oggi, non viene percepito per il rischio che è, e che sarà: il peggior nemico dell’umanità indicato, con estrema chiarezza, da tutti i modelli climatici degli ultimi quarant’anni, elaborati da tutti i centri di ricerca del Pianeta, a partire dall’Organizzazione meteorologica mondiale e dall’Ipcc delle Nazioni Unite.
E di fronte al secondo voltafaccia del tycoon non c’è nemmeno lo sconcerto, visto l’abbandono dell’Accordo di Parigi del primo Trump con le reazioni allarmanti anche europee.
Di fronte ai sintomi diffusi della malattia climatica servirebbe da Belém uno scossone all’indifferenza, e un ambizioso rilancio della battaglia climatica come priorità globale.
Ma nel mondo al contrario, negli ultimi dieci anni in ogni “Conferenza annuale delle Parti” organizzata dalle Nazioni Unite e alla quale partecipano 195 Paesi firmatari della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici per ridurre le emissioni di CO2 e contenere su livelli sostenibili gli aumenti della temperatura terrestre, vince il sostanziale immobilismo, oggi rafforzato di fronte al secondo boicottaggio di Trump per la seconda irresponsabile uscita a gamba tesa degli Usa da ogni trattativa.
Ma nascondere la verità è ormai una mission impossible anche per i più incalliti negazionisti.
Ogni anno viene certificato come l’anno più caldo da quando si misurano temperature atmosferiche e delle acque marine e oceaniche.
Nel 2024 è stata superata, per la prima volta, anche la soglia critica di +1,5°C, quel limite che dieci anni fa la COP di Parigi indicava come “invalicabile” a fine secolo, non certo 75 anni prima!
Oggi, le temperature viaggiano inesorabilmente verso gradi di calore oltre i limiti, con conseguenze gravi e inevitabili, e gli scarsi impegni attuali non garantiscono quelle de-celerazioni promesse di emissioni di CO2 nella transizione energetica, necessaria leva dell’umanità.
Siamo entrati nella terra incognita.
Registriamo effetti senza precedenti per l’inedita meteorologia.
E c’è da aspettarsi, nell’ormai prossima COP30 nell’Amazzonia brasiliana, che tanti, mentendo sapendo di mentire, proveranno ancora a disattivare ogni proposta di azione con ipocrisie e fanfaluche negazioniste senza alcun appiglio scientifico.
Belém, questa l’amara verità della vigilia, è candidata in partenza ad essere l’ennesima occasione perduta, come prevedono nei backstage qualificati partecipanti.
Al massimo, indicano la possibile riconferma di un qualche riconoscimento finanziario simbolico ai Paesi più poveri e più colpiti per far fronte alle emergenze.
Ma ogni previsione oggi porta verso la continuità del lungo addio a ogni “ambizione”, e a impegni scritti sulla sabbia per la riconversione delle economie con fonti rinnovabili e per ridurre le emissioni da estrazioni di carbone, gas e petrolio, che restano combustibili fossili iper-sovvenzionati per una cifra globale che il Fondo Monetario Internazionale calcola intorno a 7 trilioni di dollari all’anno.
Alle spalle di Belém, c’è l’ultima tappa fallimentare di Baku, la COP29 che un anno fa ha dimostrato l’incapacità assoluta di rallentare il conto alla rovescia della tragedia climatica, e come i disaccordi sul clima blocchino sul nascere le convention planetarie, paralizzando le diplomazie climatiche.
Un fronte ampio negazionista, sottobanco o apertamente, riesce a fare carta straccia di ogni possibile accordo.
Eppure, siamo ormai a 53 anni dal summit di Stoccolma del 1972, che lanciò il primo monitoraggio delle attività impattanti sull’equilibrio climatico del Pianeta; a 46 anni dalla prima Conferenza Mondiale sul Clima del 1979 che a Ginevra indicò il cambiamento climatico come accelerato da combustibili fossili; a 43 anni dalla prima conferenza mondiale dei capi di Stato a Rio de Janeiro nel Summit della Terra nel 1992 che accertò la correlazione scientifica tra emissioni di gas serra e modifiche climatiche; a 30 anni dalla prima COP di Berlino; a 28 dagli Accordi di Kyoto del 1997 che fissarono obiettivi sottoscritti come “vincolanti” dai Paesi industrializzati; a 10 dall’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015 con l’impegno globale a contenere l’aumento della temperatura media a fine secolo sotto 1,5-2°C sui livelli preindustriali.
Ma la scena globale è oggi di nuovo dominata da Trump e da quanti puntano decisamente al fallimento di ogni azione-argine alla crisi climatica.
Dopo il primo tragico bye bye degli Stati Uniti all’Accordo sul clima firmato a Parigi da Barak Obama nel 2015, dopo lo stop agli investimenti sul Green Deal definiti da Joe Biden ma per Trump “estremismo climatico”, gli Usa sono tornati supercampioni del mondo nel “drill baby drill”, in testa alla top ten dei paesi produttori di petrolio con 22 milioni di barili estratti al giorno e quote di mercato del 22%, seguiti dall’Arabia Saudita con 11 milioni di barili giornalieri e quota di mercato dell’11%, dalla Russia con 10,7 milioni di barili giornalieri a quota 11%, dal Canada con 5,7 milioni di barili giornalieri e quota di mercato del 6%, dalla Cina a 5,2 milioni di barili al giorno e quota di mercato del 5%, dall’Iraq con 4,4 milioni di barili quotidiani e quota mondiale del 4%, dal Brasile con 4,2 milioni di barili al giorno e quota di mercato del 4%, dagli Emirati Arabi Uniti a 4,1 milioni di barili al giorno e quota di mercato del 4%, dall’Iran con 3,9 milioni di barili giornalieri e quota di mercato al 4%, dal Kuwait a 2,9 milioni di barili giornalieri e quota di mercato del 3%.
Barili e quote, al momento, intoccabili.
Fa da contraltare a questa deriva la sostanziale disattivazione del Green deal europeo trasformato, nella vulgata continentale, in tasse e balzelli, e la fine di tante industrie nazionali trainanti a partire da quella automobilistica ferma alle auto del secolo scorso, quando anche i sassi sanno che è l’innovazione il nostro unico futuro economico.
Ci sarebbe molto da dire e da fare che non è stato fatto per spiegare l’enorme vantaggio della riconversione di economie nazionali, in un mercato globale competitivo già aperto e dove vince chi arriva primo e con le idee migliori.
Sono frontiere sulle quali l’Italia produttiva c’è da sempre e da sempre dimostra una genetica propensione all’innovazione e al futuro.
Anche Mario Draghi, nel suo report sulla competitività europea, ha spiegato con chiarezza che “La scadenza del 2035 per le emissioni zero avrebbe dovuto innescare un circolo virtuoso: obiettivi rigorosi avrebbero stimolato gli investimenti nelle infrastrutture di ricarica, fatto crescere il mercato interno, reso i modelli elettrici più economici.
Ci si aspettava che i settori adiacenti – batterie e chip – si sviluppassero parallelamente, supportati da politiche industriali mirate.
Ma ciò non è avvenuto… di fatto, il parco auto europeo di 250 milioni di veicoli sta invecchiando e le emissioni di CO2 sono diminuite di poco“.
A meno di colpi di scena, che auspichiamo di cuore, anche Belém rischia di essere archiviata tra le conferenze più tristi e inconcludenti.
Da Belém ci aspettiamo un sussulto, uno scossone contro ogni anacronistico negazionismo, il riavvio di una speranza.
Speriamolo, e aggrappiamoci a questa prospettiva.
(Articolo di Erasmo D’Angelis, pubblicato con questo titolo il 3 novembre 2025 sul sito online “greenreport.it”)

