Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Negli ambiti urbanizzati o semi-urbanizzati della nostra Italia, vandalizzata dalla rendita immobiliare, il sostantivo “rigenerazione” andrebbe inteso come “ripristino di spazi naturali” abusati dal malgoverno del territorio, dal prevalere di interessi economici privati e dalla conseguente mancata pianificazione urbanistica.
E’ un po’ quello che si prefigge l’Unione Europea con la “legge per il ripristino degli spazi naturali”: un obiettivo che pragmaticamente e in modo lungimirante si salda all’urgenza di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.
Purtroppo la “rigenerazione” pensata dai cultori dello sviluppo e del profitto basati sul cemento risulta incompatibile con la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio e può addirittura prevedere, in “salsa green”, nuove colate di cemento.
E’ quello che sta per succedere in Valpolicella, la terra del Recioto e dell’Amarone, una terra oggetto, fin dagli anni 70, di una “urbanizzazione selvaggia” che in parte ha già compromesso il suo valore paesaggistico.
Gli attuali amministratori locali del comune di San Pietro in Cariano hanno autorizzato in un’area industriale abbandonata l’edificazione di un enorme capannone per la produzione di materiale plastico e per ospitare alcune fasi della lavorazione delle uve.
Gli attuali amministratori locali, anziché operare in modo lungimirante per il recupero e il ripristino degli spazi naturali “ante-speculazione edilizia”, autorizzano, in un’area ove esiste un “vincolo paesaggistico”, la costruzione di un gigantesco ecomostro di cemento che occuperà, a ridosso delle colline di Castelrotto, una superficie di 6 ettari (60.000 mq.), alto come un condominio di 5 piani.
Per avere un’idea dell’assurdità che caratterizza questa mega operazione immobiliare basta pensare che nel comune di San Pietro in Cariano dal 2006 al 2022 (16 anni) il consumo di suolo è stato di 12 ettari (dati Ispra 2022).
Questo capannone occuperà una superficie di 6 ettari (60.000 mq.) pari al 50% del suolo consumato in 16 anni nel comune di San Pietro in Cariano e, nonostante il solito specchietto per le allodole sulla sua reale sostenibilità, sarà un vero e proprio “ecomostro climalterante”: climalterante sia nel momento della sua costruzione, sia per il suo esercizio, sia per le ricadute urbanistiche legate al traffico e alla qualità dell’aria.
L’immobiliare che ha ottenuto dal comune il permesso di costruire il capannone aveva già provato nel 2016 a mettere le mani sull’area della “ex Lonardi” per una sua riconversione residenziale, ma l’amministrazione locale di allora e il TAR del Veneto annullarono l’Accordo di Programma tra la Regione e la precedente amministrazione locale.
Resta da appurare se l’area ove dovrebbe sorgere tale ecomostro rientri in un “ambito di urbanizzazione consolidato” perché in tal caso i 6 ettari di superficie rientrerebbero in una delle decine di deroghe della legge regionale veneta sul consumo di suolo e quindi non verrebbero considerati consumo di suolo e non andrebbero nemmeno conteggiati, a scalare, sulla quota di suolo da consumare assegnata al comune dalla medesima deleteria legge regionale.
C’è da chiedersi perché un’attività industriale per la produzione di materiale plastico venga insediata, con tutte le conseguenti implicazioni ambientali e paesaggistiche, in un territorio ove esiste un vincolo paesaggistico e il cui suolo avrebbe bisogno di essere rigenerato anche alla luce delle emergenze climatiche e idrogeologiche.
L’espansione urbanistica disordinata che ha caratterizzato il consumo di suolo e la relativa cementificazione dei comuni della Valpolicella imporrebbero un cambiamento di rotta e un ripensamento sugli errori del passato nel “malgoverno del territorio”.
A tale scopo bisognerebbe togliere e non aumentare la copertura di cemento e asfalto e bisognerebbe “rigenerare” la terra per poter fruire dei suoi servizi ecosistemici.
Fra i servizi ecosistemici del suolo ce ne sono due che andrebbero spiegati a tutti gli amministratori locali, non solo a quelli del comune di San Pietro in Cariano.
Per esempio, a proposito di alluvioni, bisognerebbe sapere che un ettaro non urbanizzato è in grado di trattenere fino a 3,8 milioni di litri di acqua e che, a proposito di emissioni in atmosfera, nei primi 30 centimetri di un suolo agricolo si accumulano 60 tonnellate di carbonio per ettaro (Paolo Pileri, Cosa c’è sotto, Altreconomia).
Poi c’è il paesaggio.
Perché, oltre alla necessità di garantire alla comunità i servizi ecosistemici del suolo, abbiamo anche il “dovere costituzionale” della tutela del paesaggio. Ce lo ricorda Andrea Zanzotto: “Salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi l’abita”.
Schiavon Dante