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Rodolfo Bosi
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Home Approfondimenti

DIAMO UNA FUNZIONE ECOLOGICA AI TETTI DI “CAPANNONIA VENETA”

16/04/2022
in Approfondimenti, Archivi, Aree agricole, edilizia, Governo del territorio, MATERIE TRATTATE, Natura, News, Piani territoriali
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Prendendo come riferimento una ricerca del CNR, che quantifica in 700 km2 la “superficie agricola” necessaria per produrre 70 GW, proviamo a calcolare quale contributo potrebbero dare i tetti dei capannoni veneti.

I 92.000 capannoni (Fonte: Assindustria Veneto Centro 2019), presenti in 5.679 aree produttive (una proliferazione incontrollata: è questo il celebrato miracolo del Nord Est) e presenti nei 541 comuni della regione, occupano una superficie complessiva di 41.000 ettari di terreno.

La clientelare e disordinata proliferazione di capannoni ha finito per compromettere il paesaggio veneto e la coesistenza di un’agricoltura adeguatamente sostenuta  per le sue valenze economiche legate alla “produzione di cibo” ed ecologiche legate ai suoi gratuiti “servizi ecosistemici”. 

In Veneto, prima della conquista del potere degli attuali acclamati vandali istituzionali, sui  41.000 ettari di suolo naturale e agricolo vivevano forme di aggregazione sociale ed economica legate alle pulsazioni e al respiro vitale di “madre terra”, un patrimonio antropologico spazzato via dal grigiore diffuso del cemento: uno sprawl urbanistico che non ha precedenti in Europa. 

Un grigiore diffuso che ha ricoperto il caratteristico e identitario  paesaggio agricolo veneto e con esso ogni possibilità di un’economia basata anche su un’agricoltura contadina a chilometri zero, magari adeguatamente sostenuta con parte di quei 83 milioni e 400.000 euro (Fonte Avepa Area DOC e Docg) che la Regione Veneto ha erogato alla monocoltura del Prosecco dal 2011 al 2017.

Quegli ettari di terreno agricolo occupati dai capannoni veneti oggi corrispondono ad una superficie di 410 km2.

Per installare celle fotovoltaiche, anche utilizzando solo il 10% di tale superficie, tenendo conto “per eccesso” dei piazzali antistanti i capannoni e  di spazi da riservare a collegamenti, manutenzione, sicurezza e di altre limitazioni logistiche (distanze minime, esigenze di raffreddamento delle celle, tetti non a falda, spazi inutilizzabili, ecc.),  si ottiene una superficie netta di 41 km2.

Tale superficie netta di 41 km 2, adattando opportunamente i parametri indicati dalla ricerca del CNR, sarebbe in grado di produrre 4,1 GW che consentirebbero di raggiungere parte dell’obiettivo nazionale  di incremento di energia rinnovabile di 30-50 GW da raggiungere entro il 2030…e senza consumare “suolo agricolo”.

E senza rovinare il paesaggio agricolo, già compromesso da 92.000 capannoni,  da una cementificazione affaristica e clientelare, da una  urbanizzazione stolta e ignorante e  riqualificando e restituendo una funzione sociale e ambientale alla  mole di cemento e asfalto che sta caratterizzando il paesaggio veneto tra un “borgo più bello d’Italia” e un “patrimonio Unesco”, singole cartoline propagandistiche spedite nei canali mainstream per costruire una narrazione fasulla, virtuale, truffaldina della “realtà d’insieme”, di quello che “era” il paesaggio veneto:  quel “continuum antropologico, geografico, ambientale” raccontato da Andrea Zanzotto.

In Veneto, nell’ottica di una riconversione ecologica delle fonti di energia,  tale proposta di  utilizzo di superfici “perse” e “inutilizzabili” sarebbe,  tra l’altro, frutto di una stima parziale delle superfici artificiali presenti in regione perché non prenderebbe  in considerazione i tetti degli altri edifici civili, dei parcheggi, delle aree già impermeabilizzate, dei corridoi limitrofi alle tante autostrade italiche.

La conversione ecologica dei tetti di  “capannonia” sposerebbe appieno la direttiva comunitaria n. 2018/2001/UE sulla promozione dell’uso dell’energia da “fonti rinnovabili” quando invita a privilegiare “l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e aree non utilizzabili per altri scopi”.

Deve essere chiaro che la perdita di una “risorsa non rinnovabile” come il suolo compromette la “transizione ecologica” anche se il suo  sacrificio favorisse forme di energia rinnovabile, proprio perché uno dei principali “servizi ecosistemici” del suolo agricolo, è, come scrive Paolo Pileri nel suo libro “Che cosa c’è sotto”, Altreconomia edizioni, “è quello di essere un potente regolatore, sia ‘dell’emissione’ e sia ‘dell’assorbimento’ di gas serra in atmosfera. Il carbonio accumulato sotto forma organica si trova soprattutto negli strati più superficiali(10-30 cm.) e rappresenta una quantità strappata alla possibile presenza nell’atmosfera”.

Si conferma ancora una volta la necessità di fermare il consumo di suolo in Veneto, anche se la ragione addotta fosse legata alla necessità di ospitare grandi impianti fotovoltaici.

È urgente fermare immediatamente il consumo di suolo agricolo in una regione, dove  una legge regionale, tanto ridicola quanto sottovalutata nei suoi effetti da un’opposizione distratta, considererebbe il consumo di suolo per ospitare impianti fotovoltaici esente da ogni limitazione e conteggio di suolo consumato rientrando in una delle sue infinite e molteplici deroghe.

Il “principio del limite” nella perdita ulteriore di “servizi ecosistemici”  erogati gratuitamente dal suolo è diventato in Veneto un “imperativo morale” che non può essere disatteso nemmeno da un declinazione tecnocratica e affaristica di una “pseudo transizione ecologica”.

Dalla presente “riflessione-proposta” restano  fuori, per ragioni di spazio, il capitolo  sulla “sovranità alimentare”, il capitolo sul “ciclo dell’acqua”, il capitolo sulla “qualità dell’aria” e della “salute”, il capitolo sul “paesaggio” e altri capitoli che compongono il “libro dell’universalità ecologica” del suolo.

Insomma, è  inaudito, in nome della “transizione ecologica”, avallare lo “scontro ecologico suicida” fra “energie rinnovabili”  e una  “risorsa a non rinnovabile”  come il suolo. 

Schiavon Dante

Socio del Gruppo d’Intervento Giuridico

 

 

 

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