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Rodolfo Bosi
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Home Approfondimenti

I paperoni degli extraprofitti sul petrolio e sul gas

02/10/2022
in Approfondimenti, Archivi, Governo del territorio, Natura, News, Piani territoriali
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Essere un azionista di una grossa compagnia petrolifera non è mai stato un così grande affare come in questi ultimi anni.

Lo rivela uno studio realizzato da ReCommon in collaborazione con Merian Research appena reso pubblico.

Bp, Eni, Equinor, Repsol, Shell e TotalEnergies, ovvero le sei principali oil major europee, hanno infatti incamerato 74,55 miliardi di dollari di extra-profitti nel solo primo semestre del 2022, soprattutto grazie ai prezzi di petrolio e gas schizzati a cifre inimmaginabili prima della crisi ucraina.

A GUIDARE LA LISTA DEI PAPERONI dell’oro nero e del gas la norvegese Equinor, per il 67 per cento in mano allo Stato, con 28 miliardi di dollari di extra-profitti, nel senso di utili netti come aggiustati nei bilanci.

Ma a colpire ancor di più, se possibile, è il dato sull’incremento del comparto esplorazione e produzione, che fa segnare un fin troppo significativo 450 per cento in più.

Non a caso nel secondo trimestre del 2022 Equinor ha incrementato la produzione di gas del 18 per cento rispetto a un anno prima, facendo del Paese scandinavo il più grande fornitore d’Europa.

Ma sul fronte esplorazione e produzione di combustibili fossili vola anche l’Eni, con il 108 per cento in più fra 2019 e 2022.

VA DETTO CHE NEL COMPLESSO però la produzione di idrocarburi negli ultimi tre anni è diminuita, con un meno 13,5 nel solito triennio considerato nella ricerca di ReCommon.

È evidente allora che è stato l’aumento dei prezzi a far lievitare in maniera anomala i profitti.

UN’ALTRA INDICAZIONE rilevante che colpisce è quella relativa al contante effettivamente generato una volta finanziati gli investimenti e coperti altri costi finanziari: oltre 46 miliardi di dollari.

Un flusso impressionante di denaro che ha fatto la felicità dei giganti dell’oil&gas, che hanno subito rivisto le loro strategie interne.

AGLI EXTRA-PROFITTI SONO COSÌ SEGUITI quasi sempre programmi molto generosi di remunerazione degli azionisti, tramite dividendi: nei primi sei mesi del 2022 le «sei sorelle europee» hanno distribuito agli azionisti 31 miliardi di dollari, corrispondenti al 42 per cento degli extra-profitti in termini di utili e al 67 per cento degli stessi in termini di cash disponibile.

Ma soprattutto si è assistito a un proliferare di piani di riacquisto di azioni proprie, il cosiddetto share buyback.

È proprio nel settore degli share buyback che si apprezzano cifre forse mai viste in passato.

LA COMPAGNIA BRITANNICA BP ha già dichiarato di voler usare il 60 per cento del cash in eccedenza per riacquistare azioni proprie, arrivando nel solo primo semestre del 2022 a 3,9 miliardi di dollari.

Lo scorso luglio, Eni portato il buyback a 2,4 miliardi di euro.

Ancora di più ha fatto Shell, con un piano di riacquisto di azioni proprie da 8,5 miliardi di dollari per la prima metà del 2022, a cui si è aggiunto un nuovo programma per 6 miliardi di dollari, che sarà completato entro ottobre.

CON QUESTA TIPOLOGIA DI OPERAZIONI le multinazionali estrattive fanno aumentare prezzo delle azioni, per la gioia degli azionisti che, qualora dovessero vendere, incasserebbero laute plusvalenze.

I grandi gestori di fondi come BlackRock, Amundi o Vanguard, sono ben consci della congiuntura particolarmente favorevole e la stanno sfruttando a più non posso.

LEGGENDO TUTTI QUESTI NUMERI, salta all’occhio come l’obiettivo pressoché unico delle aziende petrolifere sia di «inondare» gli azionisti con una valanga di profitti straordinari.

Di investire di più, casomai in quella che sbandierano tutti come la «giusta e dovuta transizione energetica ed ecologica» se ne guardano bene.

Più in general in media gli investimenti sono addirittura diminuiti del 17 per cento – Eni si attesta a meno 9 per cento.

«GLI INVESTIMENTI PRESUNTI VERDI variano dal 10 per cento del totale investito di Equinor al 25 per cento di Eni, con una media del 19 per cento», fa notare Mauro Meggiolaro di Merian Research, autore del rapporto.

«Gli extra-profitti non hanno spinto ancora nessuna compagnia petrolifera ad accelerare sulla transizione energetica e appare difficile immaginare che di questo passo si riesca a raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette di CO2 entro il 2050», ovvero l’obiettivo che l’intero comparto si è dato per dimostrare il suo operato virtuoso.

Tanto per chiarire ancor di più il concetto basta vedere come in tutto il 2022 le sei società investiranno in totale circa 9 miliardi di dollari in tecnologie green, mentre nel solo primo semestre dell’anno hanno già distribuito 31 miliardi di dollari di extra-profitti agli azionisti.

Quasi tre volte e mezzo di più.

E LA MISURE PER TASSARE gli extra-profitti?

A sfogliare le pagine dello studio non c’è da essere troppo ottimisti.

La misura introdotta dall’uscente governo Draghi dovrebbe costare a Eni, in base al ricalcolo reso noto dalla stessa azienda agli inizi di settembre, 1,4 miliardi di euro rispetto ai 546 milioni di euro inizialmente previsti, che si sommano ai 230 milioni stimati per le attività nel Regno Unito, dove è attiva l’«Energy Profits Levy», che porta l’aliquota d’imposta principale sui profitti dal 40 per cento al 65 per cento.

In Spagna, dove dovrebbe essere introdotta un’imposta addizionale dell’1,2 per cento sul fatturato delle compagnie energetiche, Repsol potrebbe pagare fino a 1 miliardo di euro.

In Norvegia esiste già dal 1996 una tassa supplementare sui redditi da petrolio, oggi pari al 56 per cento.

La francese Total finora è riuscita a evitare tasse straordinarie applicando sconti sui carburanti alla pompa, ma pagherà comunque circa 500 milioni di dollari per le sue attività nel Regno Unito.

SE SI ECCETTUA EQUINOR, i cui profitti sono già da tempo tassati in Norvegia con aliquote complessive superiori al 70 per cento, il peso totale delle tassazioni straordinarie degli extra-profitti nei vari Paesi europei sarà comunque molto limitato.

In base alle stime di ReCommon e Merian Research potrebbe essere pari, alla fine, a meno del 5 per cento degli extra-profitti generati.

IN ATTESA DELLA DISCUSSIONE sul tema al Consiglio Europeo straordinario sull’energia di fine settimana, per il momento dalle major del settore sono stati versati solo spiccioli.

(Articolo di Luca Manes, pubblicato con questo titolo il 29 settembre 2022 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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