C’è più d’uno tra gli esperti e le associazioni ambientaliste che in Italia ha storto il naso dinanzi agli accordi energetici presi dalla premier Giorgia Meloni in Algeria.
Il fronte degli scettici, in merito a quanto stipulato lo scorso 23 gennaio col presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, è via via diventato più folto.
Si va dagli scienziati di Energia per l’Italia agli attivisti di Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club e Wwf.
La necessità di diversificare gli approvvigionamenti energetici per affrancarsi dalla Russia è una giustificazione che non regge.
IN PRIMIS LO DICONO I DATI e l’impellenza di agire per far fronte alla crisi climatica, di certo non ricorrendo ai combustibili fossili che com’è noto sono climalteranti.
Il progetto di far diventare l’Italia il principale hub del gas in Europa, attraverso l’implementazione delle infrastrutture al Sud, rischia di proiettarci – avvertono – indietro con la storia.
Il «nuovo piano Mattei» annunciato con giubilo dalla presidente del Consiglio non è – denunciano – così nuovo, né rimandare a Mattei solo nominalmente restituirà i grandi fasti.
Ancora una volta a restare indietro è la transizione energetica, peraltro con un dubbio ancora da dissipare: che fine hanno fatto le contese nel Mediterraneo?
Come verrà usata la Zona economica esclusiva istituita nel 2018 da Algeri a ovest della Sardegna?
Non corriamo il rischio di comprare «il nostro stesso gas»?
A QUESTI INTERROGATIVI NON C’È ANCORA una risposta, l’unica certezza è che si punta ancora tutto sul gas mentre i tempi sono cambiati.
«Non solo manca oggi una persona di grandi capacità come Mattei – fa sapere Vincenzo Balzani, professor emerito dell’Università di Bologna Vincenzo Balzani, coordinatore del gruppo di scienziati e accademici Energia per l’Italia – ma, soprattutto, è profondamente cambiato lo scenario energetico in campo mondiale.
Se vogliamo controllare il cambiamento climatico, è necessario e urgente portare a termine la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili».
Dello stesso avviso sono gli ambientalisti: «Gli accordi presi con Algeria, Libia e altri Paesi – scrivono in una nota congiunta Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club e Wwf – delineano una diversificazione non del mix energetico, ma dei Paesi da cui l’Italia importerà gas.
Sono accordi che rischiano di condizionare pesantemente il futuro energetico italiano, accompagnati come sono da impegni per opere inutili e costose, con benefici che andranno solo a grandi aziende e Paesi esteri, mentre i costi saranno scaricati sulla collettività».
UN ESEMPIO PER TUTTI È il gasdotto dall’Algeria che potrebbe determinare anche la futura metanizzazione della Sardegna, un passo indietro nel passato che condannerebbe l’isola alla dipendenza energetica dall’estero, invece di permetterle il salto tecnologico dalla fonte del passato, il carbone, a quelle del futuro, le energie rinnovabili.
Quello di Giorgia Meloni è stato un viaggio sulla scorta di quelli fatti dai suoi predecessori.
Di firme con l’Algeria ne aveva apposte ben 15 anche Mario Draghi.
Era lo scorso luglio.
Prima di lui c’erano stati Di Maio, Conte, Gentiloni e Renzi.
Al fianco dei nostri sempre la «fedelissima» Eni.
Nel Paese africano la società è presente dal 1981 e i legami sono stati sempre rinnovati pubblicamente nel segno della memoria del fondatore Enrico Mattei.
TUTTAVIA LA RATIO DELLA POLITICA energetica nazionale non sarebbe affatto ispirata – secondo gli scienziati di Energia per l’Italia – a lui né direzionata verso gli obiettivi climatici prefissati.
Piuttosto sarebbero le esigenze commerciali di Eni a tracciare la rotta.
«In certe aree – scrivono – pesano di più i buoni uffici dei funzionari di San Donato Milanese piuttosto che l’operato della Farnesina».
A onor del vero – spiegano – il neonato piano Mattei dovrebbe chiamarsi piano Descalzi giacché «nel corso dell’ultimo anno Eni ha impresso una forte accelerazione allo sviluppo delle sue attività sul suolo algerino».
«IL COMUNICATO DIRAMATO IL 23 gennaio da Eni e Sonatrach (la sua omologa algerina, nda) – sottolineano gli accademici – ha il sapore della beffa, in tutto e per tutto drammaticamente coerente con la campagna di greenwashing e mistificazione che Eni sta finanziando da anni nel nostro Paese».
Secondo loro «la lista della spesa è nota: raddoppio della linea adriatica; raddoppio del Tap; raddoppio/potenziamento del Trasnmed; autorizzazione del gasdotto Galsi; rilancio del gasdotto Eastmed; 5 nuovi gasdotti per il Sud; nuovi rigassificatori, tra cui uno a Gioia Tauro (Enel) ed uno a Porto Empedocle (Sorgenia e Iren), con le partite dell’idrogeno blu e della cattura/stoccaggio di CO2 tutte ancora da giocare a favore dei killer del clima, Eni in testa».
ANCHE LE ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE puntano il dito contro le scelte compiute: «L’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) – chiariscono – va condotto sulla base dei nuovi e più ambiziosi target di riduzione delle emissioni climalteranti richiesti a livello Eu – quando il Pniec, oggi da aggiornare, fu approvato, il target europeo era di 40% di emissioni al 2030, oggi l’obbligo da regolamento è di almeno il 55%, con l’impegno di portarlo al -57% assunto alla COP27».
Al contrario «questo piano anacronistico – avvertono – sarà pagato a caro prezzo dai cittadini/contribuenti».
La soluzione resta una sola: puntare su «fonti rinnovabili e pulite di energia, efficienza, reti, accumuli e mobilità elettrica».
(Articolo di Maria Cristina Fraddosio, pubblicato con questo titolo il 9 febbraio 2023 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)
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