L’anno scorso era stata la siccità a mandare all’aria i piani.
Questa volta, invece, sono stati gli organizzatori a fare il possibile per far saltare tutto.
Come?
Portando oltre i 3mila metri di quota le ruspe, per spaccare e scavare un ghiacciaio – già fragilissimo – e sconfinando su un’area per la quale non c’era alcuna autorizzazione per fare i lavori.
Ci troviamo sul ghiacciaio del Teodulo, sul Cervino.
Qui la Fis (Federazione internazionale sci e snowboard) ha ben pensato – per ragioni economiche e di sponsor – di portare le gare di Coppa del Mondo, creando una pista nuova sul ghiacciaio, la Gran Becca, che parte da 3720 metri sul livello del mare (record per una competizione) e si chiude, dopo 3,7 chilometri di tracciato, in località Laghi Cime Bianche, a 2840 metri.
Ma lo ha fatto aprendo il cantiere – con tanto di ruspe – in una zona vietata in territorio svizzero.
Lo ha stabilito pochi giorni fa la Commissione cantonale delle costruzioni (CCC) del Canton Vallese che, a metà ottobre, ha ordinato la sospensione dei lavori e ha aperto un procedimento giudiziario.
Ma, come si dice, lo spettacolo deve andare avanti, accada quel che accada.
Il risultato è che la pista – che insiste per due terzi sul territorio italiano, Comune di Valtournenche – è stata modificata, in modo da non coinvolgere la porzione elvetica sulla quale era vietato scavare.
Nei giorni scorsi contro la realizzazione del tracciato, che ospiterà le prime gare di discesa libera transfrontaliere della storia (Zermatt e Cervinia) sabato e domenica, hanno preso posizione glaciologi, associazioni ambientaliste, media (svizzeri, per lo più, anche se oggi su la Repubblica è intervenuto lo scrittore Paolo Cognetti) e addirittura – fatto abbastanza raro – alcuni atleti, come i francesi Johan Clarey e Alexis Pinturault: “Questa prova, dal punto di vista ecologico, non ha alcun senso“.
Il primo, già l’anno scorso, aveva detto: “Sono convinto che questo appuntamento non abbia futuro.
Basta osservare le condizioni dei ghiacciai, che peggiorano di anno in anno”.
Ma prima degli atleti, sulla Gran Becca è arrivata la Procura della Repubblica di Aosta.
I magistrati del capoluogo hanno aperto un fascicolo (“modello 45”, cioè, al momento, per fatti che non costituiscono reato) sui lavori sulla pista che hanno interessato, naturalmente, il lato italiano.
La notizia è arrivata in Consiglio regionale.
L’assessore Luigi Bertschy, nel corso di un’interrogazione, ha risposto che “la società come già l’anno scorso, ha lavorato per tempo per ottenere tutti i permessi e le autorizzazioni”.
Ma il gruppo VdA Aperta ha annunciato di voler chiedere “tutta la documentazione disponibile, perché ci pare impossibile che qualcuno abbia regolarmente autorizzato questo scempio”.
La società, come riporta Aosta Sera, già nel 2022 aveva previsto un investimento di circa 1,3 milioni di euro (il montepremi a disposizione di atleti e atlete, invece, per ogni singola gara, è di 200mila franchi svizzeri).
La vicenda, al di là dello specifico caso giuridico – la mancata autorizzazione decretata dalle autorità svizzere – spalanca un grande punto di domanda sulla bontà dell’operazione.
Ha senso, nel 2023, triturare un ghiacciaio già provato dai cambiamenti climatici, portare a 3800 metri di quota attrezzature, cavi tv, elicotteri, sparare neve artificiale (coi relativi costi energetici e ambientali) – come fatto nel 2022 – solo per permettere di svolgere quattro gare di sci a inizio e metà novembre che potrebbero essere svolte altrove?
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(Articolo di Alberto Marzocchi, pubblicato con questo titolo l’8 novembre 2023 sul sito online “Ambiente & Veleni” del quotidiano “Il Fatto Quotidiano”)