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Tutto quello che c’è da sapere sui referendum dell’8 e 9 giugno 2025: quesito n. 1 (Reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo)

08/05/2025
in Editoriali, News
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Tutto quello che c’è da sapere sui referendum dell’8 e 9 giugno 2025: quesito n. 1 (Reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo)
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Colore scheda: verde

Titolo: Contratto di lavoro a tutele crescenti – Disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione

Descrizione: Il primo quesito referendario riguarda la disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act nel 2015, in particolare per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Attualmente, chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo ha diritto solo a un indennizzo economico predeterminato, compreso fra 6 e 36 mesi di stipendio, senza possibilità di reintegro nel posto di lavoro, tranne in rarissimi casi.

Questa regola ha limitato fortemente la tutela reale contro i licenziamenti ingiusti, prevista invece prima della riforma per la generalità dei lavoratori.

Il quesito propone quindi di tornare al sistema precedente al Jobs Act, ripristinando la possibilità per il giudice di ordinare il reintegro in azienda anche per chi è stato assunto dopo il 2015, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.

Nel caso in cui il referendum venisse approvato, verrebbe ripristinata la precedente normativa, riferita all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, poi modificato dalla Legge Fornero del 2012: il quesito propone quindi di tornare al sistema precedente al Jobs Act, ripristinando la possibilità per il giudice di ordinare il reintegro in azienda anche per chi è stato assunto dopo il 2015, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.

Testo del quesito

Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?

Per capire meglio le posizioni espresse riguardo a questo quesito, è opportuno fornire prima le seguenti informazioni.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è un articolo della legge n. 300 del 20 maggio 1970 della Repubblica Italiana (meglio conosciuta come statuto dei lavoratori), che per oltre quarant’anni (dal 1970 al 2012) ha previsto la regola secondo la quale qualunque licenziamento posto in essere da un datore di lavoro che occupa più di 15 dipendenti, se dichiarato illegittimo da un giudice, dovesse dare diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro.

Si trattava, in realtà, dell’applicazione di una regola generale del diritto civile che si chiama “remissione in pristino”, operazione mediante la quale una situazione viene riportata a com’era prima di subire il pregiudizio e non già assicurando al danneggiato un risarcimento economico (se qualcuno costruisce un muro a due metri dalla mia finestra impedendomi di vedere quello che vedevo prima, l’unica soluzione ammissibile è l’abbattimento del muro).

Questa regola nel 2012 è stata già parzialmente modificata con una riforma dell’art. 18 da parte del Governo Monti (riforma del lavoro Fornero, formalmente n.  92 della legge 28 giugno 2012, n. 92,) che ha in parte ridotto ad alcune ipotesi la possibilità della reintegrazione prevedendo, per le altre, un indennizzo economico.

A distanza di soli tre anni l’articolo 18, così come modificato dalla legge Fornero è stato abrogato il 29 agosto del 2014, in seguito alla promulgazione e attuazione del Jobs Act da parte del governo Renzi, attraverso l’emanazione di diversi provvedimenti legislativi varati tra il 2014 e il 2016, rimanendo comunque in vigore per i soli rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto legislativo numero 23 del 4 marzo 2015) e già destinatari della tutela prevista dalla norma.

Il decreto legislativo n. 23 si è espressamente prefisso lo scopo di considerare come regola l’indennizzo (pretendendo anche di fissarne il preciso ammontare rapportato agli anni di anzianità di servizio) e la reintegrazione come soluzione da applicarsi solo in casi eccezionali: tuttavia, anziché abolire l’articolo 18, ne ha stabilito la “morte lenta”, disponendo che le nuove regole si applicano solo ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.

In tal modo è stata introdotta una ingiustificata disuguaglianza nel mondo del lavoro tra persone che svolgono la stessa attività nello stesso luogo di lavoro con la conseguenza che, con il decorrere del tempo, i tutelati dall’articolo 18 si riducono progressivamente, come in effetti è avvenuto negli ultimi dieci anni.

Non solo: la legge Fornero del 2012 aveva introdotto una particolare procedura conciliativa nei casi di licenziamenti economici, vietando di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza aver prima attivato un tentativo di conciliazione presso la sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del lavoro.

Il datore di lavoro con più di 15 addetti deve preventivamente manifestare, motivandola, l’intenzione di licenziare, e solo nel caso in cui non si sia raggiunto un accordo davanti alla Commissione di conciliazione, potrà procedere al licenziamento. Tutte queste garanzie, che hanno anche l’effetto di ridurre il contenzioso giudiziario, sono state cancellate dal Jobs Act per gli assunti dopo del 7 marzo 2015.

Nel corso degli ultimi dieci anni la Corte costituzionale ha smantellato in molti punti le previsioni di quest’ultimo.

Bastino tre esempi di licenziamenti illegittimi per i quali il decreto n. 23/2015 continua ad escludere la reintegrazione:

a) in caso di licenziamento disciplinare, anche dopo l’ultimo intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 129 del 2024), a meno che il fatto contestato sia insussistente o il contratto collettivo non preveda espressamente, per quella specifica condotta, una sanzione diversa dal licenziamento, come il rimprovero scritto, la multa o la sospensione dal lavoro: ciò comporta che per un inadempimento lieve non specificatamente contemplato dal contratto collettivo tra le sanzioni conservative (come, comprensibilmente, spesso accade) si può perdere definitivamente il posto di lavoro;

b) in caso di licenziamento individuale per motivo economico o organizzativo, ad esempio per soppressione del posto di lavoro, anche se è provato che il datore di lavoro avrebbe potuto collocare il dipendente in altro posto disponibile (cd. violazione dell’obbligo di repechage);

c) nel caso di un licenziamento collettivo in cui vengono violati i criteri di scelta previsti dalla legge, come l’anzianità di servizio o i carichi di famiglia: regola, sia chiaro, che vale per i soli assunti dopo il 7 marzo 2015.

Va infine ricordata anche la sentenza della Corte costituzionale n. 12 del 7m febbraio 2025 secondo cui “all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità” perché in alcune di esse “si avrebbe, invece, un arretramento di tutela”.

Si tratta di una questione affiorata più volte in articoli critici del referendum ma rispetto alla quale va segnalata la strumentalità e parzialità.

Se è vero infatti che esistono alcuni marginali casi di licenziamento illegittimo in cui la tutela risarcitoria del D.Lgs. 23 risulta – dopo gli interventi della Corte costituzionale – poco più vantaggiosa rispetto a quella dell’art. 18, è peraltro vero che quest’ultimo, anche dopo le modifiche apportate dalla legge Fornero, assicura la tutela reintegratoria come principio di prevalente tutela contro il licenziamento illegittimo.

E questo è ben evidenziato dalla stessa sentenza della Corte costituzionale sopra richiamata, la quale, nel dichiarare ammissibile il referendum ne ha evidenziato “la chiarezza, l’omogeneità e l’univocità” la cui matrice unitaria “resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. 23/15 nella sua interezza”.

Un quesito, quindi, estremamente semplice nella sua sostanza, per quanto l’elettore troverà, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale, un lungo testo pieno citazioni di leggi e di sentenze.

POSIZIONI RISPETTO AL QUESITO N. 1 

I referendum del 2025 hanno riacceso un forte dibattito pubblico.

Da un lato, le forze promotrici li presentano come strumenti di giustizia sociale: dall’altro, alcuni esponenti politici e associazioni di categoria esprimono preoccupazione per gli effetti economici e normativi che l’eventuale abrogazione di certe leggi potrebbe comportare.

In particolare, il quesito sul reintegro dei lavoratori licenziati divide profondamente perché c’è chi lo considera una tutela irrinunciabile e chi, invece, teme possa scoraggiare le assunzioni.

Sulle ragioni del sì e del no al licenziamento illegittimo invitiamo a vedere ed ascoltare il video prodotto dal quotidiano “Il Sole 24 Ore”.

Vedi https://www.youtube.com/watch?v=NHgKigl3qAw

Riportiamo integralmente la nota a cura dell’Ufficio Giuridico Cgil nazionale, mettendo in grassetto di colore rosso le ragioni di chi si oppone a questo referendum.

CGIL – Referendum, le conseguenze (favorevoli ai lavoratori) derivanti dall’abrogazione del Jobs Act e il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori

Simona Caleo/Cgil

Cgil: stop alle mistificazioni, se passa il referendum netto cambio di rotta in termini di maggiore tutela dei lavoratori e delle lavoratrici

Con il primo quesito, si chiede l’abolizione integrale del decreto legislativo n. 23 del 2015 (emanato in attuazione del cosiddetto “Jobs Act”), con il quale si privano della copertura dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori i nuovi assunti, garantendo loro una tutela meramente economica, e non più reintegratoria, nella gran parte dei licenziamenti e soprattutto in quelli motivati da ragioni economiche.

Poiché tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 sono molto meno garantiti di quelli che ancora godono delle tutele dell’art. 18, sanare questa ingiusta disparità andrebbe indubbiamente nella direzione non solo della lotta alla precarietà ma anche della ricomposizione del mondo del lavoro, anche considerando che, secondo i dati statistici, ad oggi, gli occupati assunti dopo il 7 marzo 2015 sono oltre 3 milioni e 500 mila persone e continueranno ad aumentare progressivamente

Chi intende strumentalizzare sostiene che questo referendum sarebbe ormai inutile alla luce delle modifiche contenute nel cosiddetto “Decreto dignità”, e soprattutto delle sentenze nel frattempo emanate dalla Consulta con le quali si ridimensiona il progetto contenuto nel Jobs Act, modificando significativamente il contratto a tutele crescenti ed avvicinando di nuovo la disciplina dei licenziamenti al modello dell’art. 18.

Ciò, da un lato, conferma – cosa che i critici del  referendum, in passato, non hanno mai evidenziato – che quel progetto era fortemente viziato dal punto di vista della coerenza con i principi costituzionali; mentre, dall’altro lato, non è vero che le due tutele (quella dell’art. 18 e quella del Jobs Act, anche con le modifiche apportate dalla Consulta) siano oramai le stesse perché è esclusa la reintegrazione per i nuovi assunti in svariati casi e, in particolare, nei licenziamenti economici, tranne rare eccezioni e cioè quando manchi del tutto il fatto giustificativo.

Proprio per questo è del tutto mistificatoria e fuorviante la tesi di chi sostiene che il Jobs Act, a confronto con l’art. 18 dal punto di vista delle mensilità di risarcimento (36 contro 24) è più tutelante nei confronti del lavoratore, dimenticando che l’articolo 18 – ancora oggi – prevede come regola tendenziale la reintegrazione, mentre il decreto n. 23 si limita a monetizzare con il risarcimento la maggior parte dei casi di licenziamento illegittimo.

D’altra parte, i risarcimenti liquidati dai giudici sulla base del Jobs act, specie per chi non vanta un’anzianità di servizio rilevante, sono ancora di molto inferiori a quelli che spetterebbero ove si applicasse l’art. 18 (v. oltre).

Più in particolare, confrontando l’art. 18 (rivisto dalla l. n. 92/2012) con il decreto n. 23/2015, seppur rivisto dalla Consulta, emerge che tuttora il decreto n. 23 è penalizzante perché:

A) Non consente la reintegra nei seguenti casi:

1) in caso di licenziamento individuale per motivi economico/organizzativi (c.d. licenziamenti per giustificato motivo oggettivo) l’art. 18 prevede che, eliminata la postazione di lavoro, il lavoratore debba essere ricollocato in altro posto disponibile (cd. repêchage); se il datore di lavoro non lo fa, il licenziamento illegittimo dà luogo alla reintegra; nel Jobs Act invece c’è solo il risarcimento.

2) L’art. 18 prevede che il licenziamento disciplinare debba rispettare quanto previsto dal contratto collettivo di categoria, pena la reintegra.

Il decreto n. 23/2015, dopo l’intervento della Corte costituzionale, lo prevede solo in parte, stabilendo come regola solo il risarcimento, quando il contratto collettivo per il caso contestato non contenga specifiche ipotesi disciplinari che espressamente puniscano il comportamento con una sanzione minore (rimprovero o richiamo, multa o sospensione).

3) Nei licenziamenti collettivi, se vengono violati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare – per es. vengano licenziati i lavoratori più anziani o con più carico di famiglia al posto dei più giovani che rimangono in servizio – nell’art. 18 c’è la reintegra; nel decreto n. 23 c’è solo il risarcimento.

Con l’effetto paradossale che, a fronte di un unico licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, alcuni lavoratori otterrebbero la reintegra mentre altri il solo risarcimento.

4) Se il licenziamento viene realizzato in caso di malattia prima della scadenza del periodo di comporto, l’art. 18 prevede la reintegra, mente il decreto n. 23 prevede il risarcimento.

B) Anche negli altri casi in cui l’art. 18 prevede il risarcimento, esso è più conveniente rispetto a quanto previsto dal decreto n. 23, perché:

1) il minimo risarcitorio è di 12 mensilità nell’art. 18; nel decreto n. 23 invece è di 6 mensilità; quindi, eliminando il decreto n. 23, moltissimi lavoratori licenziati illegittimamente che hanno contratti dopo il 7 marzo 2015, specie quelli con poca anzianità di servizio, avrebbero 12 mensilità e non soltanto 6.

2) Se il licenziamento è privo di motivazione e quello disciplinare non rispetta la procedura, il minimo risarcitorio è di 6 mensilità nell’art. 18, mentre invece è solo di 2 mensilità per il decreto n. 23/2015.

3) La retribuzione su cui calcolare il risarcimento è più favorevole nel caso dell’art. 18, perché viene presa a riferimento quella complessivamente percepita dal lavoratore prima del licenziamento, mentre per il decreto n. 23/2015 vale solo la più limitata retribuzione utile per il TFR.

C) Eliminazione della procedura conciliativa ex art. 7 legge 604/1966

Da ultimo, è da evidenziare che l’abrogazione del Jobs act reintrodurrebbe la particolare procedura conciliativa nei casi di licenziamenti economici: per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, infatti, è vietato procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 senza aver preventivamente attivato un tentativo di conciliazione presso la sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del lavoro.

Il datore di lavoro deve quindi prima manifestare, motivandola, l’intenzione di licenziare, e solo dopo la comparizione davanti alla Commissione di conciliazione – e solo nel caso in cui non si sia raggiunto un accordo – potrà procedere al licenziamento.

Tutte queste garanzie, che hanno anche l’effetto di ridurre il contenzioso giudiziario, sono state cancellate dal Jobs Act.

D) Computo dell’anzianità negli appalti

Un’altra norma che verrebbe travolta dall’abrogazione referendaria del decreto 23/2015 è l’articolo 7, il quale tiene conto dell’anzianità maturata dal lavoratore occupato sull’appalto oggetto di successione ma solo ai fini del computo dell’indennizzo dovuto in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento, disponendo, a tal fine, che “l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

Il “vecchio” assunto, ovvero colui che ha già prestato la propria opera nell’ambito dello stesso appalto oggetto di cessione ad altro imprenditore, è destinato dunque, anche qualora riesca a conservare il suo posto di lavoro, ad essere equiparato a un “nuovo” assunto ai fini della tutela applicabile in caso di licenziamento illegittimo, con conseguente pregiudizio del regime di stabilità precedentemente goduto.

Sindacato UIL – Da tempo, la Uil ritiene che questo strumento debba essere riformato per recuperarne l’efficacia. C’è il rischio concreto che, in molte circostanze, così come è strutturato, esso non consenta di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Per queste ragioni, la Uil non ha partecipato alla raccolta delle firme né farà parte dei Comitati per i cinque quesiti referendari.

Tuttavia, la Uil inviterà tutti ad andare a votare, per garantire una massiccia partecipazione democratica.

Nel merito, poi, coerentemente con il proprio impegno sindacale, la Uil darà indicazione di votare per l’abolizione del Jobs Act, contro il quale ha proclamato a suo tempo uno sciopero generale.

Sindacato CISL – Per esprimere la propria opinione sui quattro referendum lanciati dalla Cgil e approvati dalla Consulta, la confederazione guidata da Daniela Fumarola ha predisposto un ‘’volantino” destinato ai luoghi di lavoro che, di fatto, boccia non solo i quesiti, ma il ricorso stesso allo strumento del voto popolare.

Precisando che “noi difendiamo i lavoratori con scelte consapevoli e non con slogan”, la confederazione di Via Po afferma che “il lavoro non si difende guardando al passato’’, e che “il referendum non è la scelta giusta”, perché “propone soluzioni parziali, rischiose o addirittura dannose per i lavoratori’’.

Sul primo quesito, il più popolare, quello che si propone di cancellare il Jobs act, il giudizio è totalmente negativo: ‘’un referendum mal posto, che potrebbe perfino danneggiare i lavoratori’’.

La Cisl contesta innanzi tutto uno dei principi cardine affermati dalla Cgil nella sua campagna referendaria, e cioè il ritorno all’articolo 18 nel caso di vittoria del ‘’si’’: “è falso che ci sarebbe un ritorno all’articolo 18”, afferma il volantino, perché “abolendo la legge sul contratto a tutele crescenti si tornerebbe alla riforma Fornero del 2012”.

Legge che “prevede un indennizzo solo fino a 24 mensilità, contro le 36 previste dal Jobs act”.

Dunque, l’esito di una vittoria del si sarebbe negativo per i lavoratori. Inoltre, la Cisl afferma che ‘’la reintegra dei licenziamenti illegittimi esiste ancora, per gravi motivi”, che ‘’la Corte costituzionale ha già migliorato la norma in più punti”, e che, in ogni caso, ‘’nessun aumento dei licenziamenti è stato registrato dopo la riforma” varata dal governo Renzi nel 2015.

Sindacato USB – L’USB dà indicazione a tutti i suoi iscritti e delegati di votare 5 Sì e di sostenere la campagna che ha come principale obiettivo il raggiungimento del quorum.

Partito Democratico – Elly Schlein ha deciso di impegnare il Partito Democratico in favore del “Sì” su tutti e cinque i quesiti.

La decisione di partecipare attivamente alla campagna referendaria della CGIL per i referendum sul lavoro non era scontata.

Il Jobs Act è infatti una riforma promossa attraverso vari provvedimenti adottati dal governo di Matteo Renzi, all’epoca segretario del PD, tra il 2014 e il 2016: il PD lo sostenne con determinazione, e lo fecero anche vari esponenti che ora stanno convintamente con la segreteria di Schlein, come per esempio il responsabile economico Antonio Misiani.

Per Schlein, però, conta anzitutto la coerenza col suo percorso personale: già nel 2015, da europarlamentare del PD, aveva manifestato contro il Jobs Act proprio insieme alla CGIL, per poi abbandonare il partito in dissenso rispetto alla linea politica di Renzi: più di recente, nella campagna per le primarie che l’ha portata a essere eletta segretaria del PD nel febbraio del 2023, aveva promesso una revisione delle leggi sul lavoro promosse dal Jobs Act.

La linea ribelle dei riformisti Pd – È questo, a quanto apprende l’Ansa, l’orientamento prevalente in vista dei referendum di giugno tra i riformisti del Pd della corrente Energia popolare, che fa capo all’eurodeputato Stefano Bonaccini, sfidante sconfitto di Elly Schlein alla segreteria.

Questo orientamento è per il No ai tre quesiti che mirano a cancellare le norme su licenziamenti e contratti a termine introdotte dal Jobs act del governo Renzi.

Dalla minoranza dem negano di voler puntare a far fallire il quorum con l’astensione, come invece rivendicato dal centrodestra: “Macché boicottaggio, non scherziamo. Andremo a votare“, riferisce una fonte interpellata dall’agenzia.

Che minimizza il peso della posizione ufficiale del partito per i cinque sì: “Anche la segretaria ha riconosciuto una certa libertà di scelta, dicendo che non verranno chieste abiure a nessuno”.

In ogni caso, viene sottolineato, “ognuno si esprimerà liberamente, non c’è una posizione coordinata”.

Tra i riformisti dem c’è anche chi esprime lo stesso concetto in chiaro: “Io non ho nessun imbarazzo“, premette a Ping pong, su Radio 1, l’ex ministra Paola De Micheli.

“Ovviamente andrò a votare, non voterò per l’abrogazione del Jobs act, anche perché il Jobs act in parte è stato ridimensionato dalla Corte Costituzionale.

E anche perché sono convinta che questa sia una discussione che guarda il passato, mentre vorrei occuparmi del futuro“.

Anche un civico di area Pd come il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi annuncia l’astensione sui quesiti sul lavoro: “Preferisco una riforma importante che guardi alle nuove forme di lavoro e alle nuove esigenze che soprattutto dal mondo giovanile ci vengono”.

Movimento 5 Stelle – Il Movimento 5 Stelle ha espresso il proprio sostegno ai quattro quesiti referendari riguardanti il lavoro.

“Lavoratori senza tutele, precarietà, boom di cig, il 9% degli occupati in povertà, quattro giovani su dieci che guadagnano meno di nove euro all’ora, tre lavoratori al giorno che escono di casa al mattino e non rientrano la sera perché muoiono.

Non è questa la Repubblica fondata sul lavoro che ci racconta la nostra Costituzione, diciamo basta”, ha scritto il leader del M5s Giuseppe Conte su Facebook.

”Ai  referendum dell’8 e 9 giugno il M5s dirà 4 volte sì“, è “una prima occasione per iniziare a riconquistare i diritti e tutele sottratti ai lavoratori da scelte e leggi sbagliate, a partire dal Jobs act”, ha aggiunto.

Per quanto riguarda il quinto quesito, relativo alla riduzione degli anni di residenza necessari per ottenere la cittadinanza italiana, il Movimento 5 Stelle non ha adottato una posizione ufficiale.

Fratelli d’Italia e Forza Italia – La posizione del centrodestra è quella di invitare i propri elettori ad astenersi.

Secondo quanto riportato da Repubblica, Fratelli d’Italia ha dato indicazioni precise con una comunicazione inviata domenica ai parlamentari dal titolo inequivocabile: “Referendum, scegliamo l’astensione”.

Nel testo si afferma che non votare è un modo per esprimere dissenso verso un’iniziativa considerata “di parte”, promossa dalla sinistra.

Una linea condivisa anche da Forza Italia.

Il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato: “Non so cosa dice FdI, noi siamo per un astensionismo politico, non condividiamo la proposta referendaria”.

Alla domanda se il suo partito invitasse esplicitamente all’astensione, ha risposto: “Assolutamente sì”.

Per poi specificare: “Non andare a votare è una scelta politica, non è una scelta di disinteresse nei confronti degli argomenti.

Non c’è nessun obbligo di andare a votare, è illiberale chi vuole obbligare a farlo”.

Lega – Anche se con toni più sfumati, anche la Lega è per l’astensione su tutti e 5 i quesiti.

Azione e Italia Viva – Anche Italia Viva e Azione, seppur con toni diversi, si sono espresse contro il referendum. Ovviamente sulla stessa linea contraria al referendum c’è il padre del Jobs act, l’ex premier Matteo Renzi: “Se qualcuno vuole l’abiura ha sbagliato persona.

Io voterò NO al referendum sul Jobs act. E non cambio idea su nulla, anzi sono orgoglioso delle mie battaglie”, scrive nella sua newsletter.

L’ex premier, in un’intervista al Corriere, ha definito i quesiti “il simbolo di una guerra ideologica”, sostenendo che non rappresentano una soluzione concreta alla precarietà lavorativa.

Renzi ha anche sottolineato che, in caso di vittoria del sì, non si tornerebbe allo Statuto dei lavoratori com’era prima del Jobs Act, ma alla legge Monti-Fornero, che prevede comunque un indennizzo e non il reintegro automatico.

Dott. Arch. Rodolfo Bosi

 

 

 

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