- Colore scheda: grigio
- Titolo: Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi
- Descrizione: Il quesito propone di abrogare alcune delle regole vigenti sull’utilizzo dei contratti a termine, che li rendono stipulabili fino a 12 mesi senz’alcun obbligo di causali che giustifichino il lavoro temporaneo da parte del datore di lavoro, nemmeno in un eventuale giudizio.
Tali norme erano state introdotte dalla riforma Jobs Act, attuata dal governo Renzi nel 2014.
Nel caso in cui il referendum venisse approvato, l’obbligo di indicare il motivo del ricorso ad accordi a termine verrebbe nuovamente esteso anche ai contratti e ai rapporti di lavoro di durata inferiore ai 12 mesi, e verrebbe eliminata la possibilità per le parti individuali coinvolte di individuare giustificazioni per la stipula, la proroga o il rinnovo di tali contratti, limitando così il ricorso agli accordi a tempo determinato.
- Testo del quesito
Volete voi che sia abrogato il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, avente ad oggetto “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183” limitatamente alle seguenti parti: Articolo 19, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b-bis)”; comma 1-bis, limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “, in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; Articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?
POSIZIONI RISPETTO AL QUESITO N. 3
Sindacato CGIL – Questo il loro comunicato sul quesito promosso: “Riduzione del lavoro precario – In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Rendiamo il lavoro più stabile. Ripristiniamo l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato.”
Sindacato UIL – Da tempo, la Uil ritiene che questo strumento debba essere riformato per recuperarne l’efficacia. C’è il rischio concreto che, in molte circostanze, così come è strutturato, esso non consenta di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Per queste ragioni, la Uil non ha partecipato alla raccolta delle firme né farà parte dei Comitati per i cinque quesiti referendari.
Tuttavia, la Uil inviterà tutti ad andare a votare, per garantire una massiccia partecipazione democratica.
Nel merito, la UIL lascia libertà di voto ai propri iscritti sul quesito n. 3.
Sindacato CISL – Per esprimere la propria opinione sui quattro referendum lanciati dalla Cgil e approvati dalla Consulta, la confederazione guidata da Daniela Fumarola ha predisposto un ‘’volantino” destinato ai luoghi di lavoro che, di fatto, boccia non solo i quesiti, ma il ricorso stesso allo strumento del voto popolare.
Precisando che “noi difendiamo i lavoratori con scelte consapevoli e non con slogan”, la confederazione di Via Po afferma che “il lavoro non si difende guardando al passato’’, e che “il referendum non è la scelta giusta”, perché “propone soluzioni parziali, rischiose o addirittura dannose per i lavoratori’’.
Quanto al quesito relativo all’indennizzo per i licenziamenti nelle piccole imprese, che propone di eliminare l’attuale tetto massimo di 6 mensilità, qui il giudizio non è del tutto negativo ma, si osserva, la soluzione che propone il referendum è comunque ‘’incompleta”, in quanto ‘’non garantisce che i giudici concedano importi superiori’’.
Meglio, invece, “una riforma che aumenti sia il limite minimo che massimo”’ degli indennizzi: ‘’giusto migliorarli, ma il referendum abrogativo non raggiunge l’obiettivo”.
Sindacato USB – L’USB dà indicazione a tutti i suoi iscritti e delegati di votare 5 Sì e di sostenere la campagna che ha come principale obiettivo il raggiungimento del quorum.
Partito Democratico – Elly Schlein ha deciso di impegnare il Partito Democratico in favore del “Sì” su tutti e cinque i quesiti.
La decisione di partecipare attivamente alla campagna referendaria della CGIL per i referendum sul lavoro non era scontata.
Il Jobs Act è infatti una riforma promossa attraverso vari provvedimenti adottati dal governo di Matteo Renzi, all’epoca segretario del PD, tra il 2014 e il 2016: il PD lo sostenne con determinazione, e lo fecero anche vari esponenti che ora stanno convintamente con la segreteria di Schlein, come per esempio il responsabile economico Antonio Misiani.
Per Schlein, però, conta anzitutto la coerenza col suo percorso personale: già nel 2015, da europarlamentare del PD, aveva manifestato contro il Jobs Act proprio insieme alla CGIL, per poi abbandonare il partito in dissenso rispetto alla linea politica di Renzi: più di recente, nella campagna per le primarie che l’ha portata a essere eletta segretaria del PD nel febbraio del 2023, aveva promesso una revisione delle leggi sul lavoro promosse dal Jobs Act.
«L’invito all’astensione significa che Meloni e il governo hanno paura del popolo oltre a essere un tradimento dei principi costituzionali che fissano il voto come un dovere civico», ha arringato la Schlein.
Una stoccata che è arrivata proprio a ridosso del question time in Senato durante il quale il premier ha ribadito «la priorità, per la maggioranza, della crescita occupazionale, della tutela del potere d’acquisto e dell’aumento degli stipendi»
La linea ribelle dei riformisti Pd – È questo, a quanto apprende l’Ansa, l’orientamento prevalente in vista dei referendum di giugno tra i riformisti del Pd della corrente Energia popolare, che fa capo all’eurodeputato Stefano Bonaccini, sfidante sconfitto di Elly Schlein alla segreteria.
Questo orientamento è per il No ai tre quesiti che mirano a cancellare le norme su licenziamenti e contratti a termine introdotte dal Jobs act del governo Renzi.
Dalla minoranza Dem negano di voler puntare a far fallire il quorum con l’astensione, come invece rivendicato dal centrodestra: “Macché boicottaggio, non scherziamo. Andremo a votare“, riferisce una fonte interpellata dall’agenzia.
Che minimizza il peso della posizione ufficiale del partito per i cinque sì: “Anche la segretaria ha riconosciuto una certa libertà di scelta, dicendo che non verranno chieste abiure a nessuno”.
In ogni caso, viene sottolineato, “ognuno si esprimerà liberamente, non c’è una posizione coordinata”.
Tra i riformisti Dem c’è anche chi esprime lo stesso concetto in chiaro: “Io non ho nessun imbarazzo“, premette a Ping pong, su Radio 1, l’ex ministra Paola De Micheli.
“Ovviamente andrò a votare, non voterò per l’abrogazione del Jobs act, anche perché il Jobs act in parte è stato ridimensionato dalla Corte Costituzionale.
E anche perché sono convinta che questa sia una discussione che guarda il passato, mentre vorrei occuparmi del futuro“.
Anche un civico di area Pd come il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi annuncia l’astensione sui quesiti sul lavoro: “Preferisco una riforma importante che guardi alle nuove forme di lavoro e alle nuove esigenze che soprattutto dal mondo giovanile ci vengono”.
Movimento 5 Stelle – Il Movimento 5 Stelle ha espresso il proprio sostegno ai quattro quesiti referendari riguardanti il lavoro.
“Lavoratori senza tutele, precarietà, boom di cig, il 9% degli occupati in povertà, quattro giovani su dieci che guadagnano meno di nove euro all’ora, tre lavoratori al giorno che escono di casa al mattino e non rientrano la sera perché muoiono.
Non è questa la Repubblica fondata sul lavoro che ci racconta la nostra Costituzione, diciamo basta”, ha scritto il leader del M5s Giuseppe Conte su Facebook.
”Ai referendum dell’8 e 9 giugno il M5s dirà 4 volte sì“, è “una prima occasione per iniziare a riconquistare i diritti e tutele sottratti ai lavoratori da scelte e leggi sbagliate, a partire dal Jobs act“, ha aggiunto.
Per quanto riguarda il quinto quesito, relativo alla riduzione degli anni di residenza necessari per ottenere la cittadinanza italiana, il Movimento 5 Stelle non ha adottato una posizione ufficiale.
Fratelli d’Italia e Forza Italia – La posizione del centrodestra è quella di invitare i propri elettori ad astenersi.
Secondo quanto riportato da Repubblica, Fratelli d’Italia ha dato indicazioni precise con una comunicazione inviata domenica ai parlamentari dal titolo inequivocabile: “Referendum, scegliamo l’astensione”.
Nel testo si afferma che non votare è un modo per esprimere dissenso verso un’iniziativa considerata “di parte”, promossa dalla sinistra.
Va messo in evidenza che la premier Giorgia Meloni ha a suo tempo definito il Jobs Act “carta buona per incartare le pizze“, lamentandosi con l’allora Governo Renzi perché non accettava correttivi.
Oggi, allo stesso riguardo il Presidente del Senato Ignazio La Russa ha dichiarato che farà propaganda perché la gente resti a casa.
La linea dell’astensione é condivisa anche da Forza Italia.
Il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato: “Non so cosa dice FdI, noi siamo per un astensionismo politico, non condividiamo la proposta referendaria”.
Alla domanda se il suo partito invitasse esplicitamente all’astensione, ha risposto: “Assolutamente sì”.
Per poi specificare: “Non andare a votare è una scelta politica, non è una scelta di disinteresse nei confronti degli argomenti.
Non c’è nessun obbligo di andare a votare, è illiberale chi vuole obbligare a farlo”.
Lega – Anche se con toni più sfumati, anche la Lega è per l’astensione su tutti e 5 i quesiti.
Azione e Italia Viva – Anche Italia Viva e Azione, seppur con toni diversi, si sono espresse contro il referendum. Ovviamente sulla stessa linea contraria al referendum c’è il padre del Jobs act, l’ex premier Matteo Renzi: “Se qualcuno vuole l’abiura ha sbagliato persona.
Io voterò NO al referendum sul Jobs act.
E non cambio idea su nulla, anzi sono orgoglioso delle mie battaglie”, scrive nella sua newsletter.
L’ex premier, in un’intervista al Corriere, ha definito i quesiti “il simbolo di una guerra ideologica”, sostenendo che non rappresentano una soluzione concreta alla precarietà lavorativa.
Renzi ha anche sottolineato che, in caso di vittoria del sì, non si tornerebbe allo Statuto dei lavoratori com’era prima del Jobs Act, ma alla legge Monti-Fornero, che prevede comunque un indennizzo e non il reintegro automatico.
Magistratura Democratica (MD) – L’esecutivo di MD, in una nota, ha fornito la motivazione di questo impegno, quasi anticipando i dubbi legittimi di quanti potrebbero interrogarsi su cosa abbia a che fare la mission dei magistrati con il posizionamento sul referendum.
«Intendiamo partecipare al dibattito pubblico sui temi referendari cercando di contribuirvi, come associazione di magistrati, con il nostro specifico sapere tecnico – si legge nella nota di Magistratura democratica – Lo facciamo pensando che sia non solo un diritto ma un nostro dovere.
E nel disegno costituzionale dei diritti, il lavoro è al centro, fondamento della Repubblica democratica.
Ma non qualsiasi lavoro, non ogni scambio tra la fatica umana e un compenso quale che sia: nella Costituzione il lavoro è via di emancipazione dal bisogno».
MD non si limita a fare una dissertazione sul tema del lavoro, dando spessore alle argomentazioni con il richiamo alla Costituzione, ma arriva al punto di prendere posizione sul Jobs Act: «I referendum di giugno hanno il merito di rimandare a questa idea del lavoro, chiamando elettori ed elettrici a ripudiare un modello regolativo molto diverso, affermatosi nel nostro ordinamento ormai da decenni e di cui i decreti attuativi della riforma nota come Jobs Act costituiscono l’esempio ultimo e perfetto: un modello in cui il lavoro – scrivono i magistrati – è un fattore della produzione come altri, è una merce che può essere sempre usata quando serve e sempre dismessa quando non serve più, al più con una spesa predeterminata, generalmente modesta».
Una presa di posizione precisa.
Dott. Arch. Rodolfo Bosi