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Abbastanza di che cosa

20/10/2015
in Archivi, Governo del territorio, Natura, News, Piani territoriali
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Immagine.Giorgio Nebbia

Giorgio Nebbia

L’attenzione per i problemi ambientali, quelli della scarsità di materie prime, degli inquinamenti, delle modificazioni climatiche e delle alluvioni, mobilita intellettuali, scrittori, giornalisti.

Uno degli sport più diffusi fra questi formatori dell’opinione pubblica consiste nell’inventare nuove parole o attribuire nuovi significati a vecchie parole.

Pensate alla parola “ecologia”: da austera scienza dei rapporti fra esseri viventi e ambiente circostante, viene usata come strumento di pubblicità per deodoranti, biciclette e mozzarelle; “bioeconomia”, un termine che indica la revisione dell’economia in modo che rispetti le leggi biologiche, è diventata il nome dei processi per produrre i sacchetti di plastica; l’aggettivo insostenibile, che in italiano indica una cosa difficilmente sopportabile, ha generato il nome “sostenibile” che sta ad indicare che si può continuare a produrre merci senza fine con un po’ di pannelli solari; adattamento e resilienza indicano la possibilità di far fronte alle alluvioni e alle frane costruendo muraglioni di cemento invece di pulire e regolare il corso dei fiumi, e così via. U

na recente invenzione è l’”economia dell’abbastanza”, titolo di fortunati libri, articoli e dibattiti.

È oltre mezzo secolo che viene ripetuto che i disastri ambientali deriva dalla “eccessiva” produzione di merci e edifici e macchine e relativi rifiuti.

Un celebre e dimenticato libro del 1973 avvertiva che “Piccolo è bello”, poi gli stessi concetti sono stati riscoperti dalla filosofia della decrescita e ora dall’”economia dell’abbastanza”.

Al di là dei discorsi, è bene ricordare che decrescita e “abbastanza” si riferiscono alla produzione e all’uso di cose materiali: patate e frigoriferi, elettricità e ferro, carta e edifici, plastica e carri armati: chi deve diminuire i suoi consumi e quanto è “abbastanza”?

Di oggetti, di merci, di macchinari le persone hanno bisogno per vivere, per mangiare (occorre grano e olio), per abitare (ci vuole cemento per le case), per muoversi (ci vuole acciaio per automobili e biciclette e treni), per conoscere (occorre carta per i libri), per curarsi (occorrono letti di ospedale e siringhe per le iniezioni).

I settemila milioni di abitanti delle Terra hanno tutti gli stessi bisogni fondamentali, cibo, salute, conoscenza, ma li soddisfano in maniera molto diversa; i “primi mille” milioni hanno abbondanza di “cose”, anzi di cose sempre più raffinate e costose e ci pensa la pubblicità delle imprese a proporre spazzolini da denti elettrici, motociclette “ruggenti”, mode e lusso spesso sguaiati.

A questi ”mille” milioni si racconta che i consumi crescenti giovano all’economia e assicurano l’occupazione.

Circa quattromila milioni di terrestri hanno consumi così-così, in parte simili a quelli dei “primi mille”, in parte molto minori e modesti e insufficienti.

Gli “ultimi duemila” milioni hanno una modesta o modestissima quantità di beni materiali, insomma sono più o meno “poveri” o “poverissimi”, e sono spinti, per imitazione delle condizioni di vita dei “primi mille”, decantate dalla televisione che ne porta le immagini in tutto il mondo, a possedere sempre più “cose”, a qualsiasi costo, anche emigrando, anche con la violenza.

Questa “disuguaglianza” è stata denunciata da Papa Francesco nella sua enciclica Laudato sì, ricordando che “un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare (ha proprio scritto così) alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere” (n. 95).

A questo punto sorge la domanda: che cosa è “abbastanza” e per chi; la risposta viene non da chiacchiere, ma da un serio lavoro culturale e scientifico di sociologi e ingegneri, filosofi e cultori di ecologia (di quella vera) e di merceologia (la disciplina che indica come produrre e caratterizzare le “cose” oggetto di produzione e di consumo): quali consumi e sprechi e inquinamenti sono molto al di là dei limiti dell’”abbastanza”, e con quali materie e processi è possibile assicurare “abbastanza” beni a chi ne è privo, fra gli “ultimi duemila” milioni di poveri e poverissimi, per soddisfare i bisogni reali e fondamentali.

Il bisogno di acqua e di cibo, tanto per cominciare: sta per chiudere i battenti l’EXPO di Milano che avrebbe dovuto suggerire come sfamare il pianeta e si è risolto in grandi dichiarazioni e fiere gastronomiche che incantano folle sazie e magari anche obese, ma non fanno fare un passo avanti per soddisfare i bisogni alimentari di chi non ha “abbastanza” cibo, anche perché le sue terre sono sfruttate per far ingrassare i “primi mille” milioni di terrestri.

L’igiene personale è un bisogno fondamentale per fermare le epidemie che uccidono ogni anno quei milioni di persone, soprattutto bambini, che sguazzano nelle pozzanghere di rifiuti per mancanza di gabinetti, mentre tanti, fra i ”primi mille”, dispongono di gabinetti raffinati e vasche e idromassaggi ad alto consumo di acqua e di energia.

Gli esempi possono continuare per altri bisogni essenziali: salute, acqua pulita, istruzione, abitazioni decenti, eccetera.

Per assicurare “abbastanza” beni essenziali ai poveri e poverissimi occorrono tecnologie appropriate, chimica, innovazioni, una “ingegneria della carità” da cui verrebbero anche numerose e durature occasioni di lavoro e di impresa.

Non si tratta di fare delle opere buone; se non saranno attenuate le disuguaglianze, anche attraverso un contenimento degli sprechi dei “primi mille” milioni, gli “ultimi duemila” milioni chiederanno di eliminarle con la violenza.

La lotta alla disuguaglianza è (sarebbe) interesse anche dei ricchi.

 

(Articolo di Giorgio Nebbia pubblicato con questo titolo il 12 ottobre 2015 sul sito “Eddyburg”)

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