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Carlo Petrini: «Il clima è cibo e terra»

02/12/2015
in Archivi, Aree agricole, Governo del territorio, MATERIE TRATTATE, Natura, News, Piani territoriali
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Carlo Petrini.00.

«Non si comincia mica bene».

Il vertice dell’Onu sul clima a Parigi non è ancora cominciato e Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e eco-gastronomo di fama internazionale, è preoccupato.

Perché non si comincia bene?

Nelle 54 pagine del testo che apre i lavori non c’è la parola “agricoltura”, neanche una volta, non si cita mai il problema della biodiversità.

È una carenza grave perché si tagliano fuori miliardi di persone e poi segnala un errore di impostazione.

Perché agricoltura significa cibo, economia locale, significa sovranità alimentare dei popoli.

L’agricoltura è insieme vittima del cambiamento climatico, e anche, in parte, corresponsabile del problema.

È vittima in quanto ogni aumento di un grado della temperatura media determina uno spostamento delle coltivazioni di 150 chilometri verso il nord geografico e di 150 metri più in alto.

Questo slittamento vuol dire perdita di prodotti in aree tipiche, distruzione di zone rurali, impoverimento di intere comunità e conseguente migrazione delle popolazioni che non riescono più a vivere dove vivevano un tempo.

Nello stesso tempo l’agricoltura, per come si è andata configurando negli ultimi cinquant’anni, ha incorporato lo spirito e il senso dell’economia industriale, è diventata per la maggior parte un’agricoltura che mira al massimo profitto a una produzione massiva che non ha a cuore la difesa della natura e la salvaguardia delle risorse della terra.

L’agricoltura intensiva insieme all’allevamento industriale sono responsabili del 70% del consumo di risorse idriche e la zootecnia da sola della produzione del 14% delle emissioni di gas serra.

Sappiamo quanto siano disastrosi questi allevamenti, non solo per il benessere degli animali, ma anche per l’impatto che hanno sull’ambiente.

Il modello che intensifica le produzioni non rispettando i ritmi naturali , le stagioni, i raccolti, è lo stesso che ci porta sulla tavola ogni giorno qualsiasi tipo di cibo, anche dal più sperduto buco del mondo, come fosse una cosa normale.

Come se non avesse un costo sociale, un ultra-prezzo? Non ci siamo un po’ abituati a tutto questo? ( pioggia autunnale come un monsone, pesci tropicali nel Mediterraneo, insetti e piante di altri climi).

Sì, come ci hanno abituati a considerare normale che il 35% del cibo prodotto venga buttato, uno spreco che equivale alla distruzione delle colture di 1,4 miliardi di ettari di terra.

Coltivazioni che hanno prodotto emissioni nocive.

Perciò bisogna cambiare logica rispetto al mantra che ci impone solo di consumare, consumare, consumare.

Nell’agenda del summit di Parigi ci saranno anche gli incontri dell’Ifad, l’agenzia dell’Onu che chiede investimenti a vantaggio dei piccoli agricoltori per combattere la desertificazione, Slow Food può farsi sentire lì?

Abbiamo con l’Ifad una partnership diretta.

Quando organizziamo, annualmente, Terra Madre partecipa sia l’Ifad sia la Fao.

Aggiungo che un mese fa al meeting Terra Madre indigenous abbiamo radunato 145 comunità indigene di 40 paesi del mondo.

Anche da lì è nato il nostro appello “Non mangiamoci il clima” che rivolgiamo ai governi riuniti a Parigi.

L’appello è già sottoscritto da centinaia di associazioni e movimenti e ora sul sito www​.slowfood​.it attende la firma dei cittadini.

Penso che la presenza operativa della società civile si debba far sentire, adesso o mai più.

Non è possibile che Cop21 parta dando per scontato che, se va bene, il pianeta si surriscalderà di 2 gradi.

Se poi i limiti di emissione dei gas serra, come sembra, non saranno vincolanti, non so dove si andrà a finire.

Se invece che di biodiversità e land grabbing, si parlerà soprattutto di agrofuel e carbon markets, non è perché le grandi company del nucleare, dell’acqua, delle auto nel voler “dare il loro contributo alla causa ecologica” stanno facendo lobby? L’ong Transnational institute dice che sono loro ad aver sostenuto come sponsor il 20% delle spese del summit.

Non mi stupisce.

Già sei-sette mesi fa avevamo segnalato come certe sponsorizzazioni di multinazionali non fossero un buon segnale. Ma sono i governi che devono prendere le decisioni, a loro ci dobbiamo rivolgere.

Lo slogan dei movimenti che saranno in piazza oggi è “system change not climate change”. D’accordo? Si deve cambiare sistema?

Non c’è ombra di dubbio.

Bisogna cambiare paradigma, dico io.

Si deve capire che le cattive pratiche, basate solo sul business, generano iniquità e sconquassi ambientali.

Bisogna anche capire che si tratta di cambiare stile di vita.

Ora sappiamo tutti dell’allarme dell’Oms sull’eccessivo consumo di carne.

Ma si deve anche sapere che se in Europa il consumo medio pro capite in un anno è 100 chili e negli Usa 125 chili, non si può chiedere agli africani, che ne consumano in media 5 chili l’anno, di ridurlo perché inquina.

Il ragionamento deve essere: contrazione per che chi consuma troppo e convergenza per chi non ne ha a sufficienza.

Questa è una vera governance mondiale.

Ma attualmente l’unico capo di Stato che sostiene un paradigma di equità e sostenibilità è il pontefice romano.

L’enciclica Laudato Sì è un documento straordinario di riflessione sul cibo, la biodiversità, la povertà, su come tutto sia connesso.

Per una governance mondiale ecologica non servirebbe, come in Bolivia, una sorta di tribunale dell’Aja per i reati ambientali?

Può essere una via.

La scorsa settimana in Brasile c’è stato un immane disastro ambientale e i responsabili non sono punibili in base alla legge brasiliana.

Non lo sarebbero stati fino a vent’anni fa neanche in Italia.

In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione.

Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento.

 

(Articolo di Rachele Gonnelli, pubblicato con questo titolo il 29 novembre 2015 su “Il Manifesto”: si tratta di una intervista a Carlo Petrini, fondatore della rete Slow Food)

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