La bellezza come medicina.
La invochiamo sempre più spesso, contro la depressione o contro la crisi; ci consoliamo dei nostri mali ripetendo che “la bellezza salverà il mondo” (o l’Italia).
Ma esiste una bellezza senza qualificazioni?
Di quale bellezza, oggi, avremmo bisogno?
La bellezza, si sa, è relativa.
Per esempio, per il neosindaco di Venezia il bacino di San Marco è più bello se vi transita una mega-nave come la Divina.
Una nave alta 67 metri, il doppio di Palazzo Ducale, e lunga 333 metri, il doppio di Piazza San Marco.
Non sono abbastanza belle, invece, le foto di Gianni Berengo Gardin, che presentano le grandi navi come Mostri a Venezia.
Esposte dal Fai a Milano, le foto dovevano andare in mostra anche a Venezia, ma lo ha vietato un diktat del sindaco Brugnaro: i veneziani potranno vedere le foto (“immagine negativa di Venezia”) solo accanto al progetto di un nuovo canale per le mega-navi in Laguna (che sarebbe, dice lui, un’“immagine positiva”).
Interessante idea: onde chi volesse fare una mostra fotografica sulla distruzione di Palmira dovrà affiancarla a un’altra con il punto di vista dell’Is; e una mostra di quadri sulla Strage degli innocenti non è ormai pensabile, a Venezia, senza un’altra che illustri le ragioni di Erode.
Berengo Gardin è uno dei fotografi più famosi del mondo, e quelle sue foto piacciono a Ilaria Borletti-Buitoni (sottosegretario ai Beni Culturali), piacciono ai molti veneziani che il 6 settembre hanno inscenato a piazza San Marco un flash-mob coprendosi il volto con foto delle grandi navi.
Ma il sindaco dice no.
Quale bellezza salverà Venezia, quella dei mastodonti che incombono sul Canal Grande o quella delle foto che ne denunciano l’invadenza?
Nel suo impeccabile Liberi servi.
Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi), Gustavo Zagrebelsky smonta l’uso della frase “La bellezza salverà il mondo” (prelevata da Dostoevskij): essa «è palesemente una sentenza enigmatica, e invece è diventata un luogo comune, una sorta d’invocazione banale e consolatoria, una fuga dai problemi del presente».
Nei nostri paesaggi e nelle nostre città, la bellezza non può darci nessuna salvazione in automatico, assolvendoci da ogni responsabilità.
Al contrario, la bellezza non salverà nulla e nessuno, se noi non sapremo salvare la bellezza.
Come scrive Iosif Brodskij, va evitato ad ogni costo «quel vecchio errore, inseguire la bellezza. Chi vive in Italia dovrebbe sapere che la bellezza non può essere programmata di per sé, anzi è sempre l’effetto secondario di qualcos’altro, spesso volto a fini quanto mai normali».
Non fu per un’astratta bellezza, ma in funzione della cittadinanza, del potere o della fede, che si innalzarono palazzi e cattedrali; non fu per provocare estasi estetiche, ma per esprimere, in dialogo con i concittadini, pensieri sulla vita, sul mondo e sul divino, che Michelangelo o Caravaggio posero mano al pennello o allo scalpello.
E se le nostre città sono belle (quando ancora lo sono), è perché sorsero per la vita civile, come uno spazio entro il quale lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni avviene grazie al luogo e non grazie al prezzo.
Ma la bellezza “preter-intenzionale” delle città è devastata da una mercificazione dello spazio che ruota intorno a due feticci del nostro tempo, il grattacielo con la sua retorica verticale e la megalopoli in indefinita espansione orizzontale.
Anche le piccole città “mimano” le megalopoli con quartieri-satellite, autostrade urbane e altri dispositivi di disorientamento.
I centri storici si svuotano (il caso di scuola è Venezia), e fronteggiano un triste bivio: ora decadono a ghetto urbano riservato agli emarginati; ora, al contrario, subiscono una gentrification che li svilisce a festosi shopping centers o a enclaves riservate agli abbienti, e da centri di vita si trasformano in aree per il tempo libero, assediate da periferie informi e obese.
Il paesaggio urbano diventa così un collage di suburbi, dove la distinzione fra quartieri segna una frontiera fra poveri e benestanti.
Spariscono i confini della città (rispetto alla campagna), si moltiplicano i confini nella città.
Il “centro storico” diventa un’area residuale, un luogo di conflitti la cui sorte dipende dagli sviluppi o dal ristagnare della speculazione edilizia, dall’andamento delle Borse, dal capriccioso insorgere di bolle immobiliari.
Eppure chi provoca tali devastazioni sbandiera invariabilmente la retorica della bellezza.
Come ha scritto Brodskij (e proprio a proposito di Venezia), «tutti hanno qualche mira sulla città. Politici e grandi affaristi specialmente, dato che nulla ha più futuro del denaro.
Al punto che il denaro si ritiene sinonimo del futuro e in diritto di determinarlo.
Di qui l’abbondanza di frivole proposte sul rilancio della città, la promozione del Veneto a porta dell’Europa centrale, la crescita dell’industria, l’incremento del traffico in Laguna.
Tali sciocchezze germogliano regolarmente sulle stesse bocche che blaterano di ecologia, tutela, restauro, beni culturali e quant’altro.
Lo scopo di tutto questo è uno solo: lo stupro.
Ma siccome nessuno stupratore confessa di esserlo, e meno ancora vuol farsi cogliere sul fatto, ecco che i capaci petti di deputati e commendatori si gonfiano di obiettivi e metafore, alta retorica e fervore lirico» (Fondamenta degli incurabili, Adelphi).
La bellezza del passato è una perpetua sfida al futuro, scrive Brodskij.
Ma la bellezza delle città non è estenuata e vacua forma, è prima di tutto vita civile.
Perciò ha ragione papa Francesco a ricordare agli architetti che «non basta la ricerca della bellezza nel progetto, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco» (Laudato si’ , § 150).
Non c’è bellezza senza consapevolezza verso il passato e verso le generazioni future.
La bellezza di cui abbiamo bisogno non è evasione dal presente: non c’è bellezza senza storia, senza una forte responsabilità collettiva.
(articolo di Salvatore Settis, pubblicato con questo titolo il 16 settembre 2015 su “La Repubblica”)