Articolo di Angiola Codacci-Pisanelli pubblicato il 17 novembre 2014 con questo titolo su “L’Espresso”.
Angiola Codacci-Pisanelli
Maledetto liceo classico.
Tutta colpa sua: il degrado del Paese, l’inconcludenza dei politici, la poca competitività delle aziende, la credulità della gente…
Tutti i mali d’Italia nascono da qui.
Anche se ormai lo sceglie solo il sei per cento degli studenti (e per la maggioranza ragazze, statisticamente destinate più a una carriera da insegnanti che a manovrare le leve del potere) è comunque considerato la fucina delle élite intellettuali di un Paese che ormai, delle élite e degli intellettuali, pensa di poter fare una sola cosa: rottamarli.
Benedetto liceo classico.
È l’anima dell’Italia migliore.
Prepara alle professioni del futuro (Umberto Eco), insegna a ragionare e a resistere (Luciano Canfora), e questo perché grazie alle “lingue morte” propone veri “ problemi da risolvere ” e non semplici “esercizi da eseguire” (Dario Antiseri).
Gli dobbiamo gran parte di quello che di buono ha ancora l’Italia: da Fabiola Gianotti a Daniele Dorazio, fisico incompreso chiamato dal Cern ma bloccato dal suo liceo di Brindisi, ben più del sei per cento degli italiani che fanno fortuna all’estero hanno in tasca una maturità classica.
Eppure ogni volta che si parla di limiti della scuola italiana, il primo imputato è il liceo classico: protagonista in questi giorni di un vero “ Processo”, organizzato dalla Fondazione San Paolo al Teatro Carignano di Torino (all’accusa l’economista Andrea Ichino, alla difesa Eco).
Critiche periodiche che sono destinate a riattizzarsi con la scadenza (il 15 novembre) dei termini per commentare il progetto di riforma per “ La buona scuola ” del governo Renzi.
Il 3 dicembre saranno presentati i nuovi dati sullo stato delle scuole superiori raccolti dal consorzio Almalaurea, il 4 e 5 dicembre e si farà il punto su dieci anni di test Invalsi per la valutazione dell’istruzione scolastica.
Di certo un pregio ce l’ha, il classico, e dovrebbero riconoscerglielo anche i suoi detrattori più accaniti: basta sparargli contro per conquistare ben più di un quarto d’ora di attenzione.
Ne sa qualcosa Michele Boldrin, cervello in fuga (insegna economia a St. Louis) e aspirante riformatore del Paese, anche se il suo progetto di “Fare per fermare il declino” si è schiantato sul curriculum falso di uno dei co-fondatori, Oscar Giannino.
Che per ironia della sorte aveva mentito su tutto tranne che su un punto: aveva la maturità.
Classica.
Qualche settimana fa Boldrin in un video sul sito di istruzione libera Oilproject ha tuonato contro «la maledetta cultura del liceo classico» che produce «mostri politici» come il ministro Dario Franceschini , reo di aver risposto all’amministratore delegato di Google che accusava la scuola italiana di «non formare persone adatte al nuovo mondo» che uno studente italiano «forse sa meno di informatica ma più di storia medievale, e nel mondo questo può essere apprezzato».
Peccato che Franceschini abbia fatto il liceo scientifico, non il classico, gli ha fatto notare Tullio de Mauro, linguista e tra i massimi esperti di istruzione, dalla sua rubrica su Internazionale”.
Ma l’attacco era già andato oltre, come ha mostrato un altro dei rottamatori “a distanza” dell’Italia di oggi, il finanziere renziano Davide Serra.
Che in margine al recente raduno alla Leopolda ha trovato modo di spiegare la sua visione dell’istruzione: «La cultura umanistica ha fatto il suo tempo. Lo dico sempre ai miei bambini: bisogna essere cool, diventare matematici».
L’attacco non è più solo al liceo classico, dunque, ma a tutta la struttura dell’istruzione superiore.
Che del resto è messa in gioco proprio in questi ultimi mesi da una delle riforme promesse da Renzi, quella che porterà a “La buona scuola”.
Progetto di 120 pagine presentato all’inizio di settembre e disponibile sul sito del ministero della Pubblica Istruzione, commenti e proposte aperti a tutti.
Cosa ne nascerà?
Difficile immaginarlo anche perché solo uno dei sei punti della proposta punta a «ripensare ciò che si impara a scuola»: e infatti commenti e polemiche finora si sono concentrati su ruolo, formazione, assunzioni e carriera dei docenti.
Tra le materie da aggiungere o migliorare il progetto elenca discipline artistiche (arte, musica, disegno) e pratiche (inglese, educazione fisica, informatica).
E già delinea il «punto di arrivo»: «Un sistema che permetta ad ogni scuola di progettare ciò che insegna. Partendo da un “cuore” di discipline di base snello e comune a tutti, e dando alle scuole la possibilità di modulare la propria offerta attraverso la scelta di diverse discipline opzionali».
È un “punto d’arrivo” che somiglia molto al liceo “della libera scelta” che è nei sogni di molti.
Ben diverso da quello italiano impostato su una struttura ferrea, nata dal lavorìo secolare di esperti di pedagogia.
«Un liceo che non è stato inventato di sana pianta da Giovanni Gentile ma che deriva dall’impostazione liberale del decennio giolittiano», ricorda De Mauro a chi considera le radici del Classico nel ventennio fascista la sua prima tara insanabile.
Comunque sembra difficile riuscire a inzeppare musica, disegno, informatica, economia, legge nei programmi liceali già sovraffollati che pesano sulle spalle dei liceali italiani.
E ancora più difficile sarebbe conciliare le nuove materie ipotizzate dal “liceo Renzi” con il sogno di un corso quadriennale, già realizzato da una tormentata sperimentazione avviata dal ministro Carrozza.
Il modello è il liceo francese, inglese o americano: poche materie obbligatorie e le altre a scelta.
Niente più “bestie nere”, niente più “debiti”, ripetizioni, bocciature – esperienza comune nelle nostre scuole superiori – che portano l’Italia a due record non invidiabili: quello dell’abbandono scolastico e del numero di “Neet”, giovani senza scuola, senza lavoro e senza speranze.
Del resto, se nessuno dei ragazzi che tornano dall’anno di studio negli Usa o in un paese europeo rimane colpito dalla difficoltà delle scuole locali, una ragione ci sarà.
Il liceo italiano è effettivamente più difficile di molti altri.
«Quando sono arrivato all’università a Londra, rispetto ai miei amici inglesi il mio liceo scientifico contava come aver fatto due volte il Classico, anche perché quando ero liceale, il greco e la cultura classica mi venivano inculcati da mio padre e dalle tragedie al teatro di Siracusa», ricorda Giovanni Frazzetto, neuroscienziato di base tra Londra e Berlino e studente dello scientifico “pentito”.
«Per capire fenomeni complessi come la mente e le emozioni conoscere formule non è sufficiente. Oggi in laboratorio si fanno domande come: che cos’è la mente, cosa sono le emozioni, che cos’è la moralità, che cos’è l’estetica, che cos’è l’arte o la percezione…».
Ma allora la difficoltà del curriculum classico serve davvero?
Non è solo accanimento su materie inutili e metodi di insegnamento superati?
Se lo chiedono con veemenza i genitori tedeschi, gli unici che condividono un liceo difficile come il nostro.
E più lungo: otto o nove anni (un periodo che ingloba anche le nostre medie).
Se il metro di giudizio dell’efficienza di un sistema scolastico deve essere il risultato dell’economia della nazione, non si può dire che la Germania se la cavi peggio degli Usa.
Eppure nessuno propone il modello tedesco.
E nemmeno quelli delle scuole superiori di paesi asiatici molto più bravi di noi nei test Invalsi.
«Giappone, Cina, Corea studiano i “loro” greci e latini», nota De Mauro.
«La tradizione dei loro classici viene studiata e rispettata, e si appoggia ad un sistema che non lascia per strada nessuno. La matematica va studiata bene: non “invece” della formazione storica, letteraria e umanistica, ma insieme. Niente a che vedere con le proposte di analfabeti che riecheggiano, con trent’anni di ritardo, l’antiumanesimo all’americana…».
Del resto, le critiche al Classico nascono dall’esterno, non dall’interno: chi lo ha scelto, in 74 casi su cento lo rifarebbe.
Lo dicono i dati di AlmaDiploma, la branca del consorzio AlmaLaurea dedicata alla scuola superiore.
Su cento studenti delle superiori, quasi quarantacinque sono scontenti: «Un dato grave, che sarebbe più basso se si spostasse l’età della scelta dai 14 ai 16 anni», nota il direttore di AlmaLaurea, Andrea Cammelli.
Di ritorno da un convegno a Bari sul tema “Lauree umanistiche: una fabbrica di disoccupati?”, Cammelli sottolinea alcuni dati sorprendenti: in Italia ci sono più laureati in materie scientifiche che negli Usa (40% contro 26) e a cinque anni dalla laurea, per una donna laureata in materie scientifiche o umanistiche le possibilità di lavoro sono uguali (per un uomo invece calano dall’87 al 72 per cento).
E sulla necessità di spendere meno e meglio anche per quanto riguarda la scuola, risponde. «Siamo in periodo di carestia, è vero, ma non dimentichiamo che anche in periodo di carestia, il contadino taglia su tutto ma non sulla semina».
Cammelli ricorda un’altra famosa frase sull’educazione: «Plutarco diceva: “I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”».
Ecco, su come accendere queste fiaccole, il dibattito è aperto in tutti i paesi occidentali.
Il dato di fondo è che nessuno sa definire cosa sia “utile” far studiare ai ragazzi.
Materie che “formano la mente”, come il latino e il greco, o quelle “richieste dal mercato del lavoro”?
La polemica non riguarda solo l’Italia: il dibattito si è animato intorno a un libro di Martha Nussbaum, politologa americana laureata in lettere classiche (“Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, il Mulino) e “L’utilità dell’inutile” di Nuccio Ordine(Bompiani), pamphlet in difesa della cultura umanistica, è stato un successo ovunque sia uscito, dalla Francia alla Grecia.