L’articolo di Tomaso Montanari, pubblicato con questo titolo il 5 agosto 2015 sul blog “Articolo 9” del sito “La Repubblica”, porta una critica feroce alla legge Madia di riforma della Pubblica Amministrazione.
E così da ieri «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia» anche per legge: detto fatto, Matteo Renzi ha stroncato in pochi mesi una storia plurisecolare.
Grazie al micidiale articolo 8 della Legge Madia sulla Pubblica Amministrazione, le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e se non riusciranno a evadere una pratica entro 90 giorni, si intenderà che abbiano detto sì: qualunque cosa contenga quella pratica.
Le slides della propaganda renziana pagata con i soldi pubblici sono ineffabili.
Una dice: «È vero che i soprintendenti saranno sottoposti all’autorità dei prefetti?
NO, sul territorio ci sarà un ufficio unico del territorio nel quale il prefetto avrà un ruolo di direzione (che non significa funzioni di comando)».
Manco i gesuiti del Seicento avrebbero saputo far meglio: se qualcuno dirige qualcosa, esercita un’autorità.
Il fatto che non «comandi» attiene allo stile, non alla sostanza.
E dunque, la risposta è: Sì, i prefetti dirigeranno i soprintendenti.
Un’altra slide sostiene che «la regola del silenzio assenso non favorirà la cementificazione selvaggia, ma significherà più responsabilità per le amministrazioni nell’assicurare maggior tutela del paesaggio, dei beni culturali e ambientali».
Ma come si può avere la faccia tosta di prendere in giro gli italiani con enormità di cui si sarebbe vergognato perfino Silvio Berlusconi?
Nelle soprintendenze non c’è più nessuno, per il blocco del turn over.
Non hanno più mezzi: basta auto di servizio, non più cellulari, non c’è manco la carta.
Se l’obiettivo fosse stata la maggior tutela, prima si sarebbero dovuti dare i mezzi per esercitarla, e poi si sarebbe potuto (anzi, dovuto) chiedere di esercitarla in tempi certi: ma così è solo un massacro.
Quando un Renzi presidente della provincia di Firenze si trovò ad avere bisogno di un elicottero in pochi minuti, lo chiese in prestito al re del cemento fiorentino: ci si può ora stupire se – dallo Sblocca Italia alla Legge Madia – egli pone le basi per un nuova stagione di mani sulle città e sul paesaggio?
Ma – per l’ennesima volta – Renzi non è peggiore della classe dirigente di cui è espressione: appare più colpevole solo perché si presenta come nuovo, quando invece è anche lui un fossile.
Un solo esempio: mentre Firenze veniva sconvolta da un ciclone tropicale, il presidente della Toscana Enrico Rossi invocava le Grandi Opere – carissime a Maurizio Lupi, o a Ercole Incalza – come l’unico mezzo per creare lavoro. (vedi https://www.rodolfobosi.it/posti-di-lavoro-con-le-grandi-opere/)
Un suicidio: dettato dall’ignoranza – ancora prima che dalla mala fede – della classe politica italiana.
Per trovare un’analisi pertinente del disastro fiorentino, bisogna invece leggere il discorso di qualcuno che non ne parlava affatto, ma parlava del quadro generale che lo ha provocato: «Siamo la prima generazione a sentire l’impatto del cambiamento climatico e l’ultima generazione che può fare qualcosa per combatterlo». Sono parole di Barack Obama: le più alte e ispirate che da molto tempo in qua echeggino nella politica mondiale.
Parole lontane anni luce da un’Italia fossile in cui si continua ad invocare le Grandi Opere, e a spianare ogni argine al loro dilagare.
E in tutto questo c’è un tradimento ancora più grande di quello dei politici: ed è quello dei professori, degli studiosi che dovrebbero costruire altre parole, altre idee, altre strade.
Ieri il Consiglio Superiore dei Beni culturali, massimo organo tecnico del Ministero per i beni culturali, ha sì detto che la legge Madia può mettere «in pericolo l’esistenza stessa del MiBACT», ma poi ha proseguito i suoi lavori come se nulla fosse.
Per una cosa gravissima (ma forse meno grave: il dimezzamento dei fondi del Ministero, inflitto da Tremonti a un passivo e complice Bondi nel 2008) l’allora presidente dello stesso organo protestò dimettendosi: ma quel presidente si chiamava Salvatore Settis, quello di oggi si chiama Giuliano Volpe.
E Volpe non ci pensa neanche a dimettersi, con tutta la fatica che ha fatto a farsi nominare: preferisce celebrare la ricostruzione dell’arena del Colosseo, un’impresa kitsch e culturalmente aberrante cui dedicare oltre 18 milioni euro pubblici mentre le biblioteche e gli archivi chiudono.
E così la massima espressione del sapere all’interno del Ministero per i Beni culturali è ridotta – come ha scritto oggi Francesco Merlo in un memorabile articolo – ad «una sorta di cerchio magico del ministro presieduto dall’ archeologo medievista Giulio Volpe, che di Franceschini è il piccolo Gianni Letta o, se preferite la modernità, è il Luca Lotti, ma in cattedra. “A nome del Consiglio esprimo grande apprezzamento per la destinazione di queste risorse … e per l’ operazione fortemente innovativa”, ha dichiarato ieri il professore Volpe lodando il ministro e lodandosi».
Così, quando si scriverà la storia dei danni inflitti al Paese dal breve regno di Matteo Renzi, una nota a piè di pagina documenterà che il giorno stesso in cui una legge della Repubblica uccideva l’articolo 9 della Costituzione, il ministro per i Beni culturali e la sua corte aprivano i giochi al Colosseo.
Il diavolo, come è noto, si nasconde nel dettaglio.