Pubblichiamo l’articolo di Paola Somma di cui VAS condivide pienamente i contenuti.
Paola Somma è stata professore associato di urbanistica presso l’istituto Universitario di architettura di Venezia (IUAV) e apprezzatissima autrice di due libretti della serie “Occhi aperti su Venezia” dell’editore Corte del Fontego (Benettown e Imbonimenti): l’articolo è stato pubblicato con questo titolo l’8 gennaio su “Eddyburg”.
Paola Somma
- La fiaba dell’esodo.
Se trent’anni fa gli abitanti di Venezia potevano ancora sperare di essere in grado di resistere all’occupazione della loro città, ora è chiaro che abbiamo perso la guerra.
Non si capisce, quindi, il tono sconsolato degli articoli apparsi in questi giorni sulla stampa quotidiana che, come ad ogni inizio d’anno, ci informano che Venezia continua a “perdere” abitanti.
“Purtroppo, l’esodo è inarrestabile e inesorabile”, dicono, alimentando la rassegnata convinzione di trovarsi di fronte a un fenomeno naturale e incontrastabile.
In realtà, non c’è niente di naturale nel ricambio selettivo della popolazione, un fenomeno che ha stravolto molte città, ma che a Venezia ha assunto le dimensioni di una vera e propria deportazione di massa, ed è il risultato di politiche intenzionalmente perseguite le cui tappe sono ampiamente documentate.
Si è cominciato con la distruzione e/o la svendita dell’edilizia pubblica, che hanno dissolto uno dei più ingenti patrimoni di edilizia popolare esistenti in Italia, frutto delle lotte operaie condotte all’inizio del secolo scorso.
Tra i molti esempi, il cosiddetto “progetto Giudecca” è un caso da manuale di come una pubblica amministrazione possa operare per consentire alle agenzie immobiliari di mettere un intero sestiere sul mercato con lo strillo pubblicitario che “è come stare a Brooklyn e vedere Manhattan”!
La indiscriminata chiusura di pubblici servizi e una tassazione punitiva per chi abita, associata ad una evasione fiscale protetta se non incoraggiata per gli altri, hanno poi reso sempre più faticoso e costoso per un normale cittadino continuare a vivere a Venezia.
Adesso siamo nello stadio finale e i vincitori si apprestano a far fuori i pochi rimasti.
Da qualche tempo, una serie di imprese sponsorizzano i bidoni che i cittadini veneziani pagano per raccogliere una parte delle imprecisata massa di rifiuti giornalmente prodotti dai turisti.
Per lo più, i manifesti contengono banali avvisi pubblicitari.
Nel caso dell’immobiliare CERA, però, si nota un’evoluzione del messaggio che, da semplice informazione, si è trasformato in aperta caccia alle case degli ultimi residenti.
Un dito puntato ci minaccia e ci avverte che casa nostra è ricercata, WANTED!
Allo stesso tempo, ci bombardano con finti dibattiti sul numero chiuso, sul ticket di ingresso, sul turismo sostenibile, quando basterebbe confrontare due titoli di giornale, rispettivamente del 1987 “E Venezia stabilisce il numero chiuso” e del 2013 “Si pensa al numero chiuso di turisti”, per troncare tali ipocrite discussioni e riconoscere che numero chiuso, ticket e tasse di soggiorno, in realtà sono stati istituiti, ma solo per colpire i residenti.
- Il ricambio selettivo della popolazione
L’unica cosa che possiamo fare adesso è adoperarci affinché la storia della guerra persa non venga scritta dai vincitori.
Per questo è necessario comprendere e far comprendere che quello che è successo ai veneziani succede a tutti coloro che si trovano a vivere su una terra che può valere di più, a condizione che gli abitanti vengano spostati.
Nell’elenco dei lacci e laccioli che, secondo gli investitori ed i governi che ne curano gli interessi, devono essere rimossi per favorire la “crescita”, la voce “abitanti” non compare (per il momento) in modo esplicito.
Ma, in un’epoca in cui i cittadini sono trattati come un ostacolo all’esercizio del potere e vengono programmaticamente privati dei diritti di cittadinanza, non stupisce che gli abitanti siano considerati un ostacolo allo sviluppo delle economie urbane.
Dalla rapina delle terre fertili a danno dei contadini di Africa, Asia, America Latina, alla distruzione di villaggi e comunità per la realizzazione di infrastrutture, allo sgombero di abitanti il cui potere di acquisto non è coerente con il tipo di consumatore auspicato per il loro quartiere e città, ogni giorno gruppi di popolazione devono abbandonare i loro territori per consentire un più intenso sfruttamento delle risorse che vi si trovano.
Rendersi conto della pervasività di tale fenomeno aiuta a capire il vero significato dello slogan, ormai diventato parte del lessico comune, secondo il quale le città devono competere per catturare investitori e clienti.
Uno slogan accattivante quanto ingannevole, perché, per rimanere nella metafora agonistica, non dice che non tutte le città competono nello stesso girone.
Al contrario esiste una rigida gerarchia tra i concorrenti, a seconda che si tratti dei centri finanziari di livello mondiale, dei luoghi dove si assumono le decisioni politiche che contano e di quelli dove si concentra la produzione dei beni che dobbiamo consumare.
E in questa suddivisione internazionale del lavoro fra le città, a quelle italiane il ruolo di entertainment machine, parchi divertimenti a disposizioni delle multinazionali del tempo libero, il cui sfruttamento richiede una popolazione diversa da quella presente.
Qualche anno fa Michele Vianello, vicesindaco della giunta Cacciari e strenuo sostenitore di «un’economia del cambiamento», rivendicava il merito di aver assunto iniziative per far arrivare gli «abitanti ideali di cui ha bisogno Venezia per rinascere».
I nuovi abitanti che «inseguiamo vanamente da tempo”, aggiungeva, “non sono genericamente il ceto medio, ma quelli che Richard Florida definisce la nuova classe creativa e Robert Reich gli analisti simbolici”.
Se non è chiaro chi siano gli analisti simbolici nella visione di Vianello, certo è che deve trattarsi di clienti con potere d’acquisto e disponibilità a spendere superiore a quelle di un normale abitante.
Solo così si può raggiungere l’obiettivo che nei manuali di economia urbana si chiama the highest and best use of land e che nella versione nostrana è diventata l’equazione turismo come petrolio della nazione.