Articolo di Paolo Berdini pubblicato con questo titolo il 17 febbraio 2015 sul numero di gennaio/febbraio 2015 della rivista gratuita on line “Granello di sabbia” di Attac Italia.
Dal mese di aprile 2014 Roma è sostanzialmente fallita.
La capitale dello Stato italiano ha accumulato un debito insostenibile di 22 miliardi quantificati dalla relazione di lavoro iniziata nel 2008 del commissario governativo e presentata al Parlamento.
Se ne sono accorti in pochissimi.
La notizia era così grave che renderla pubblica avrebbe provocato un terremoto sui mercati finanziari e molti investitori avrebbero preferito abbandonare un paese che vede la sua capitale portare i libri contabili al tribunale fallimentare.
Ma gli economisti liberisti, il cui credo domina il mondo, trovarono una soluzione geniale: trattare la capitale d’Italia come una qualsiasi azienda decotta.
Come già sperimentato con l’Alitalia, l’obiettivo fu quello di creare una bad company in cui far confluire tutti i debiti ed una nuova società pulita da affidare agli amici del cuore (nel caso di Alitalia, ai capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno).
E così è stato anche per Roma.
L’amico del cuore stavolta rispondeva al nome di Gianni Alemanno, da pochi mesi eletto sindaco.
Inizialmente ebbe poteri speciali in materia di bilancio e poi nel 2011 gli fu affidata una nuova creatura istituzionale pronta per l’uso: la vecchia Roma se n’è andata in pensione portando con sé 22 miliardi di euro di deficit.
Il caso del debito di Roma non è un’eccezione.
Alessandria nel 2011 è stato il primo capoluogo di provincia ad essere portato al fallimento.
Napoli è in fase di predissesto.
Parma è stata lasciata dalle amministrazioni di centro destra e cento sinistra con 850 milioni di deficit.
Reggio Calabria è fallita.
La quasi totalità delle amministrazioni locali è indebitata.
Nel luglio 2014 sono stati complessivamente 180 i comuni italiani in default.
Le cause sono sempre quelle elencate: opere pubbliche insensate, espansioni urbanistiche e utilizzo del comparto delle società di erogazione dei servizi come finanziamento occulto per il famelico mondo della politica.
Questo disegno scellerato si è servito anche dell’urbanistica, o meglio della sua distruzione.
Dal 1994, anno dell’uscita del paese dalla crisi provocata da Tangentopoli, si è assistito ad una serie ininterrotta di provvedimenti legislativi e di concrete politiche che hanno cancellato le regole di governo del territorio per sostenere il comparto delle costruzioni.
Questa scelta è stata sostenuta da un espediente retorico di grande efficacia: lasciando libera la proprietà fondiaria di disegnare le città si sarebbe avuta una nuova fase della vita urbana senza il ristagno dell’economia provocato da un’urbanistica accusata di non cogliere le ragioni del mercato.
Le città sono diventate uno dei tanti segmenti dell’economia.
Ma esse non sono meri settori produttivi: sono i luoghi in cui si vive, si lavora, ci si incontra, in cui ci sono le scuole per i giovani e i servizi di assistenza per gli anziani.
Grazie alla disarticolazione della legislazione di tutela e alla cancellazione dell’urbanistica si è prodotta la più grande espansione edilizia dal periodo dell’immediato dopoguerra.
Nel 2013 l’Ispra, Istituto superiore di studi per l’ambiente, ha confermato quanto una parte degli urbanisti e delle associazioni aveva denunciato in quegli anni.
Afferma l’Ispra che a fronte di un consumo di suolo medio europeo del 3,2% sul totale della superficie, in Italia il valore è pari a 6,2%, poco più del doppio.
A parità di popolazione insediata e di luoghi per la produzione industriale o terziaria, in Italia abbiamo cementificato il doppio dei paesi che hanno invece mantenuto il controllo del territorio.
La cancellazione delle regole ha prodotto un’esplosione edificatoria gigantesca, una frammentazione edilizia cui la mano pubblica deve fornire comunque i servizi e garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, dalla mobilità, all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
Roma e tutte le città italiane pagano con un indebitamento crescente le politiche urbane che hanno dominato l’Italia per venti anni.
La diffusione urbana è così evidente da essere notata anche da un autorevole membro del neoliberismo.
Nel giugno 2014 Carlo Cottarelli, chiamato dall’ottobre 2013 (governo Letta) quale commissario alla Spending Review, dopo anni di attività nel Fondo monetario internazionale, scopre dall’esame delle immagini satellitari notturne che la struttura territoriale italiana presenta anomalie rispetto all’Europa del nord poiché è più frammentata e dispersa, ulteriore conferma che abbiamo costruito troppo.
La soluzione proposta da Cottarelli è coerente con i dettami del liberismo.
Non chiede infatti di fermare la folle macchina del cemento.
Afferma che il rimedio è quello di spegnere l’illuminazione pubblica in modo da spendere di meno.
Abbiamo il doppio dell’urbanizzato e conseguentemente spendiamo il doppio per far funzionare le città.
I comuni italiani sono stati infatti costretti a inflazionare il cemento e l’asfalto perché così ha deciso l’economia dominante.
Il principale responsabile di questo disastro è senza dubbio Franco Bassanini (Pd), Ministro della Funzione pubblica (2001, governo Amato), che in quel ruolo decise che gli oneri di urbanizzazione che i costruttori versano ai comuni per costruire servizi, potevano essere utilizzati anche per la spesa corrente e tutti le amministrazioni locali hanno fatto ricorso a quel cespite di finanziamento.
Del resto, sono stati praticati da anni tagli lineari dei trasferimenti statali che hanno portato all’attuale generalizzata bancarotta.
Per capire l’ammontare della manovra, basti dire che nei sei anni dal 2008 al 2013 sono stati tagliati 17 miliardi di euro, oltre 2 miliardi e mezzo all’anno.
Il degrado urbanistico dei comuni italiani è dovuto a leggi scellerate volute con accordo trasversale sia dal centro destra che dal centro sinistra.
Domina però tutto il quadro la figura di Franco Bassanini, come abbiamo visto.
Ed è forse per il grande merito di aver distrutto le amministrazioni locali che – ancora con accordo bipartisan – nel dicembre del 2008 fu nominato dal governo Berlusconi a capo della Cassa Depositi e Prestiti.
E questa è una vicenda nota ai lettori della rivista perché Attac e Marco Bersani ne hanno fatto una meritoria battaglia.