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Rodolfo Bosi
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Home Archivi

I cavalieri dell’arte che sfidano la Jihad

22/10/2015
in Archivi, Beni culturali, Governo del territorio, News, Piani territoriali
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Arco trionfo Palmira

Arco di Trionfo di Palmira prima della distruzione

Vista dal cielo, la spianata dell’antica città greca e poi romana di Apamea, lungo il fiume Oronte, sembra un paesaggio lunare, oltre quattrocento ettari su cui sono disseminati decine di crateri.

Apamea

Gli stessi buchi si vedono nelle immagini satellitari nei pressi di Palmira, Deraa, Mari.

L’Is procede ormai a un ritmo forzato.

Gli scavi illegali dei siti archeologici sono migliaia secondo l’Unesco.

Un saccheggio che ha raggiunto ormai un livello “industriale” come ha sottolineato la direttrice dell’organizzazione, Irina Bokova.

La regione della Mezzaluna Fertile, così come l’aveva definita l’archeologo americano James Henry Breasted, è una delle zone più ricche di reperti e di Storia al mondo.

Sotto terra ci sono stratificazioni millenarie che custodiscono ancora molti tesori.

La furia integralista non distrugge solo il patrimonio come ha fatto qualche giorno fa con l’Arco di Trionfo di Palmira.

Distruzione arco di Palmira.

L’Is si è organizzato per guadagnare e far fruttare l’immenso patrimonio artistico e archeologico tra Siria e Iraq.

I jihadisti controllano ormai decine di siti di cui tra pochi anni rischia di non rimanere più nulla.

«Abbiamo persino visto che ci sono delle presunte autorizzazioni per gli scavi rilasciate dai combattenti a gruppi locali» racconta Giovanni Boccardi, responsabile dell’unità di crisi dell’Unesco, mostrando a Repubblica le foto satellitari.

Nulla è più lasciato al caso.

L’Is si è professionalizzato e incassa in assoluta impunità le cosiddette “khums”, tasse di sfruttamento per zone archeologiche che possono andare dal 20 al 40% del valore stimato degli oggetti.

Il Califfato avrebbe assoldato anche dei restauratori e specialisti per organizzare i saccheggi.

I “reperti del sangue”, così come vengono chiamati tra gli esperti, poi viaggiano all’estero in molti modi, anche nascosti nelle carovane di profughi.

Solo negli ultimi mesi centinaia di reperti trafugati sono stati sequestrati in Libano, Canada, Svezia, Norvegia, Regno Unito.

In Turchia sono stati sequestrati nell’ultimo anno 1448 oggetti e 544 monete.

Ma è la punta dell’iceberg.

Secondo la Cia, il contrabbando di antichità avrebbe già fatto incassare ai terroristi tra 6 e 8 miliardi di dollari.

È il terzo mercato illegale più redditizio dopo il contrabbando di droga e armi.

L’Unesco riceve e raccoglie quasi ogni giorno fotografie che documentano i saccheggi.

Molte immagini non vengono mostrate per tutelare gli informatori locali.

Alcune Ong si sono specializzate nel denunciare gli scavi illegali e il contrabbando di antichità come l’Association for the protection of Syrian Archaeology che ha un sito aggiornato diretto da Ali Cheikhmous, archeologo siriano a Strasburgo.

Distruzione di Aleppo

Aleppo

Il danno degli scavi illegali è molteplice.

«Anche quando i reperti vengono ritrovati hanno perduto il loro il loro valore storico e scientifico che si può avere solo in loco, durante gli scavi» spiega Boccardi.

In assenza di “caschi blu” che possano proteggere i siti – un appello per la creazione di un’unità simile è stato consegnato ieri all’Unesco da Francesco Rutelli – l’unica soluzione è allertare le autorità dei paesi vicini, da cui transitano i reperti, e i possibili acquirenti.

L’International Council of Museum, che raggruppa i più grandi musei del mondo, diffonde periodicamente delle red lists in cui vengono elencati i tipi di oggetti più ricercati sul mercato nero.

Per il periodo ottomano, stele in pietra o bronzo, calici e anfore.

Risalendo più indietro, mosaici e frammenti di ornamenti in ceramica, fino a pergamene con figure ornamentali, statuine in legno o metallo, gioielli, lampade a olio, sigilli in avorio o terra cotta, monete bizantine, romane, islamiche.

La vendita dei reperti non è così immediata e facile.

Per i pezzi più grandi serve una logistica di trasporto e la falsificazione dei documenti ad alto livello se si vuole accedere a collezionisti importanti. I reperti più pregiati non vengono infatti subito venduti.

Spariscono, nascosti in qualche magazzino per rispuntare dopo cinque, dieci anni.

Il tempo serve non solo per allentare l’attenzione delle autorità ma anche per riuscire a fabbricare una falsa documentazione.

Mentre Matteo Renzi ha proposto durante l’Assemblea generale dell’Onu di organizzare un task force di carabinieri specializzati per tutelare il patrimonio culturale del mondo in situazioni di emergenza, anche la giustizia internazionale si muove.

Un leader tuareg di un gruppo islamista maliano legato ad Al Qaeda, sospettato di aver organizzato la distruzione nel 2012 di mausolei a Timbuctù, è apparso di fronte alla Corte penale internazionale.

L’uomo è accusato di crimini di guerra.

Ma le normative internazionali che regolano il traffico illecito di antichità sono inadeguate davanti alla nuova minaccia in Siria e Iraq. 

La convenzione dell’Unesco risale al lontano 1970.

Dal febbraio scorso, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che prevede l’uso della forza per la salvaguardia del patrimonio.

È la prima volta.

L’Unione europea sta invece studiando come intralciare la creazione di falsi documenti.

Allo studio un nuovo import certificate, un certificato all’importazione unico tra i paesi membri.

«Purtroppo non possiamo agire sul posto, ma almeno cerchiamo di rendere più complicato e meno redditizio questo business» continua Boccardi.

L’Unesco ha organizzato delle campagne di sensibilizzazione con le più importanti case d’aste come Sotheby’s o Christie’s.

«I collezionisti devono sapere – spiega Boccardi – che non si tratta solo dell’acquisto illecito di un oggetto ma di una forma di finanziamento del terrorismo internazionale».

Il progetto Shirin riunisce archeologi, storici dell’arte che hanno lavorato nella regione.

Conoscono ogni pietra, sono in grado di guardare foto satellitari e capire da dove viene un oggetto sequestrato.

Il direttore scientifico del progetto è Michel Al Maqdassi che ha lavorato per trent’anni al servizio di Antichità di Damasco e ora è a Parigi.

Shirin è un progetto pilota organizzato dal ministero degli Esteri francese e dall’università di Durham per agevolare uno scambio di informazioni tra le varie banche dati e formare un unico inventario, il Sites & Monument Record for Syria (Smrs).

Il primo prototipo del Smrs è stato lanciato nel 2014 e raccoglie già oltre 15mila referenze archeologiche.

Un inventario gigantesco di tutto ciò che appartiene al popolo siriano e iracheno e non dovrebbe essere mai essere trafugato.

 

(Articolo di Anais Ginori pubblicato con questo titolo il 16 ottobre 2015 su “La Repubblica”)

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