La raccolta di cotone nel Burkina Faso, uscito da poco da una dittatura trentennale appoggiata dall’Occidente, era in crisi e con un prodotto di scarsa qualità e alla fine i produttori di cotone burkinabé hanno avuto un’idea: farla finita con le sementi OGM del cotone BT di Monsanto e la cosa ha funzionato splendidamente.
Non solo il raccolto è stato ottimo, ma il prodotto è di eccellente qualità, si vende bene e ad un maggior costo.
Insomma è stato un ritorno indietro, salvifico, al tempo del Burkina Faso socialista di Thomas Sankara.
Infatti, come spiega Axel Leclercq su Positvr, «il matrimonio tra Monsanto e il Burkina Faso risale al 2009.
All’epoca questo Paese (che è annoverato tra I più poveri del nostro pianeta) aveva posto tutte le sue speranze nel cotone OGM dalle promesse straordinarie: meno lavoro, più rendimenti, più profitti. Grasso modo, Monsanto voleva cambiare la vita del Paese».
Ma i produttori di cotone molto presto hanno capito che c’era qualcosa che non funzionava: il cotone BT Ogm non era di buona qualità e si vendeva male.
Alla fine è arrivato il divorzio dalla multinazionale degli Ogm appena acquisita dalla Bayer.
Monsanto risponde che in Burkina Faso è stata fatta un «cattivo utilizzo del prodotto», ma gli agricoltori burkinabé non rimpiangono il cotone Ogm e sono convinti che il ritorno alle sementi tradizionali sarà seguito dagli altri produttori africani.
Bruttissime notizie per Monsanto/Bayer che guardava all’Africa come la terra promessa degli Ogm: la spettacolare marcia indietro del Burkina Faso ha avuto un clamoroso successo e in molti pensano di cacciare Monsanto dai loro campi per tornare al cotone non OGM.
La fibra del cotone BT Monsanto è troppo corta e la lunghezza della fibra è il primo criterio di qualità del cotone, quindi i produttori burkinabé hanno pagato duramente sul mercato la fiducia riposta nelle promesse del governo golpista e nella Monsanto.
Ora il nuovo governo nato dalla rivoluzione e dalle elezioni democratiche chiede addirittura un risarcimento alla multinazionale degli OGM e l’Association interprofessionnelle du coton du Burkina (Aicb) quantifica il danno subito in 50 miliardi di franchi Cfa, circa 74 milioni di euro.
È dal 2012 che il calo di qualità del cotone OGM si è fatto sentire con il calo delle entrate delle compagnie cotoniere: il cotone burkinabè perdeva colpi sul mercato mondiale rispetto agli altri cotoni dell’Africa occidentale, ma per le compagnie cotoniere burkinabè era difficile rinunciare dall’oggi al domain al cotone BT che era diventato popolare tra gli agricoltori perché richiedeva meno pesticidi e che all’inizio sembrava aver aumentato sensibilmente i rendimenti, cosa che era piaciuta molto ai contadini meno formati professionalmente.
Quando sono cominciate le difficoltà, Monsanto si era impegnata a rivedere le sue sementi, ma senza grande successo.
Anno dopo anno le compagnie cotoniere hanno quindi richiesto sempre meno il cotone OGM, che ormai si coltivava nell’80% del territorio destinato a cotone.
Quest’anno è stato chiesto agli agricoltori di non piantare cotone transgenico e di seminare quello tradizionale.
Il nuovo direttore generale della Sofitex, una delle principali compagnie cotoniere, ha fatto il bilancio di danni prodotti dal cotone BT della Monsanto: da 20 a 30 franchi circa in meno per libbra di cotone, un danno non solo economico, ma anche morale e di immagine per il cotone burkinabè, l’oro bianco del Paese, la seconda risorsa del Burkina Faso dopo l’oro vero, ha perso la sua reputazione.
Per questo l’Aicb, dopo trattative discrete con Monsanto, ora reclama apertamente risarcimenti multimilionari in euro.
L’Aicb ricorda che la ragione principale per la quale è stato adottato il cotone Ogm era la lotta ai bruchi ch distruggevano i raccolti, ma «otto anni dopo, il Burkina Faso attualmente incontra problemi con questa speculazione, perché essendo corta la lunghezza della fibra gli stakeholder non sono più molto interessati».
Insomma, le promesse del cotone Ogm di evitare i maggiori danni alle coltivazioni prodotte dagli insetti diventati resistenti ai pesticidi, accrescere la produzione, diminuire la quantità di insetticidi sparsi e i costi di produzione e la fatica nei campi, le ragioni che hanno portato ufficialmente il governo a dare il via libera a Monsanto, si sono trasformate negli anni in perdite finanziarie e in un abbassamento della qualità del cotone, fino a che, l’Aicb non ha inviato a Monsanto un memorandum e, 10 mesi dopo, si sono tenuti a Ouagadougou diversi incontri tra cotonieri Burkinabé e la multinazionale che non ha mostrato di recepire le ragioni dell’Aicb che, appoggiata dal nuovo governo, ha quindi deciso di produrre il 100% di cotone tradizionale nella stagione 2016/2017.
La Sofitex, che ha un bel po’ di colpe in questo disastro, non se le assume e avverte furbescamente che «il ritorno al cotone convenzionale non è un rifiuto del cotone OGM, ancor meno della partnership con Monsanto, ma piuttosto un ripiegamento tattico, vale a dire “tornare indietro per saltare meglio”, attendando che il marchio Monsanto continui le ricerche in collaborazione con l’Inera in vista di migliorare la lunghezza della fibra del cotone GM che attualmente è controversa sul mercato mondiale e che comporta delle perdite enormi per la filiera cotoniera del Burkina Faso».
Ma sarà molto difficile che gli agricoltori Burkinabè, che, visto pur in una situazione ambientale e climatica difficile, si godono un raccolto mai visto credano ancora alle promesse di Monsanto e dei suoi complici burkinabé.
Infatti è la stessa Sofitex ad ammettere che «il ritorno alla coltura del cotone geneticamente modificato di Monsanto o di qualsiasi altro marchio che sviluppi delle tecnologie similari potrà essere preso in considerazione dall’Association interprofessionnelle du coton du Burkina (Aicb) solo quando saranno attuati i lavori di recupero delle caratteristiche del label coton burkinabé».
Cosa che, come hanno dimostrato i fatti, sembra impossibile con il “metodo” Monsanto, che forse ha meno amici nel Burkina Faso dove è tornata la democrazia.
(Articolo pubblicato con questo titolo il 2 novembre 2016 sul sito online “greenreport.it”)