Sul sito nazionale di VAS il 19 dicembre 2013 è stato pubblicato un articolo dal titolo “Il nuovo Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PTPR) della Puglia”, che dava notizia della adozione di questo strumento di pianificazione con Deliberazione della Giunta Regionale n. 1435 del 2 agosto 2013 (http://vasonlus.it/?p=2777).
L’articolo del Prof. Piero Bevilacqua pubblicato con questo titolo il 26 gennaio 2015 su “Eddyburg” dà ora notizia dell’accordo per la sua definitiva approvazione raggiunto tra il Presidente Vendola ed il Ministro Franceschini e spiega i meriti del piano.
Piero Bevilacqua
Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato sotto le convulse vicende dello scontro politico dei nostri giorni.
È l’accordo sottoscritto dal Ministro per i Beni e le Attività culturali, Franceschini e dal Presidente della Regione Puglia, Vendola, che approva il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR.).
Si tratta del primo piano paesaggistico elaborato in attuazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio e della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta nel 2000, che raggiunge questo importante traguardo.
In attesa che anche quello della Toscana, già ultimato, giunga in porto.
La Puglia dunque, una regione del nostro Sud, a livello programmatico, segna una svolta nella storia del rapporto tra la propria popolazione e il loro territorio con un progetto all’altezza di una grande pagina dell’elaborazione culturale europea dell’ultimo quindicennio.
Alla costruzione del piano, hanno concorso – con il coordinamento di Alberto Magnaghi– amministratori, tecnici, imprenditori, associazioni culturali, ordini professionali, sindacati, singoli intellettuali.
Alberto Magnaghi
Il testo del Piano accenna, a questo proposito, alle «forti tensioni etiche di un ceto intellettuale cosmopolita» operante nelle città della Puglia, che hanno concorso a tale esito.
Dunque, un grande laboratorio, attivo per diversi anni, i cui risultati meriterebbero una conferenza nazionale delle regioni italiane, per avviare una discussione generale, ma anche per innescare un movimento di imitazione e competizione tra i nostri amministratori, volto all’innalzamento degli orizzonti della politica territoriale nel nostro Paese.
Occorre dire, innanzi tutto, che il Piano rovescia la cultura territoriale che dal dopoguerra a oggi ha caratterizzato l’uso degli habitat della Puglia e dell’intero Mezzogiorno.
Nel più nobile dei casi l’intervento pianificato ha visto nel territorio il neutro supporto per una industrializzazione importata dall’esterno, attraverso poli e nuclei di sviluppo, ma soprattutto la risorsa da consumare con fameliche e disordinate espansioni urbane.
Un esito reso possibile dall’assenza di una cultura storica municipale, dalla pressione di forze economiche esterne, dai caratteri e dalle culture dell’imprenditoria locale ispirate a un «diffuso anarco-abusivismo privato», come si legge nel testo, accompagnato tuttavia anche da un «anarco-governo pubblico».
Le istituzioni pubbliche non sono state da meno nel rendere il territorio un contenitore vuoto da riempire con qualunque manufatto incarnasse un incremento economico.
Da quasi un decennio le cose sono cambiate in Puglia grazie al prezioso lavoro di Angela Barbanente, vicepresidente della Regione.
Angela Barbanente
Ma il Piano rovescia una lunga storia che va al di là del Mezzogiorno.
Esso elabora orizzonti progettuali di grande ambizione, senza limitarsi alle aree monumentali e di pregio.
Intanto mostrando come la pianificazione territoriale possa fare dell’eredità di bellezza e di lavoro – consegnataci nelle forme del paesaggio da numerose generazioni di contadini, architetti, urbanisti, imprenditori, artisti – non solo un percorso di nuove e sostenibili economie.
Esso è certamente legislatore di divieti e di vincoli.
Ad esempio, la costa è un bene comune di altissimo valore e non si costruisce più sulle dune e negli spazi agricoli.
Le attività edificatorie si indirizzano verso l’interno al fine di rivitalizzare manufatti ed economie svuotate dall’esodo.
In campagna si svolgono attività agricole, si fa ospitalità, ma non si deruralizza, né si impiantano capannoni industriali negli uliveti.
«Regole certe e dure, ma proposte per creare un processo partecipativo vero, in grado di intercettare in modo coerente i mezzi tecnici, finanziari (ingenti!) e operativi di cui la Regione dispone, per nuove opportunità economiche».
Il piano è tutt’altro che una imbalsamazione dell’esistente.
Esso si configura come un processo negoziale fra tutti gli attori in campo, senza centralismi soffocanti, chiama cittadini e imprese a partecipare attivamente realizzando economie compatibili, capaci di accrescere non solo i redditi individuali, ma anche i valori paesistici, il patrimonio comune.
Esso si presenta come un vasto campo sperimentale di democrazia rappresentativa.
Al suo interno sono previste istituzioni e strumenti di realizzazione, di cui non è possibile dar conto, come ad es. l’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio, l’Atlante del Patrimonio Ambientale, Territoriale e Paesaggistico, la Carta dei Beni Culturali, ecc.
Un elemento di sicura originalità del Piano consiste nel fatto che le economie previste e incentivate si svolgono come agenti di potenziamento degli equilibri dell’habitat, di rigenerazione delle risorse, di tutela e restauro dell’esistente, di accrescimento dei valori paesaggistici, di estensione sociale del godimento della bellezza comune impressa nel patrimonio storico.
Esso promuove filiere agroalimentari tipiche e di qualità, legate al territorio e ai paesaggi rurali storici, recuperando colture, culture e saperi locali ad essi connessi, «in forma non museale, ma funzionale ad un ripopolamento rurale in grado di promuovere qualità alimentare, ambientale, paesaggistica, urbana».
L’accenno è alla produzione vitivinicola, olearia, alla frutticultura,ecc.
Al tempo stesso prevede il recupero delle produzioni artigiane (antica arte lapidea, della lavorazione del ferro, del legno); la riqualificazione degli immobili e delle aree compromesse o degradate, con la valorizzazione del reticolo policentrico di città d’arte piccole e medie che caratterizza i sistemi territoriali delle Puglie; l’incremento dell’ autosufficienza energetica locale da fonti rinnovabili, grazie all’uso sostenibile delle energie presenti nel territorio (sole, vento, biomasse ecc); la ripresa dei sistemi tradizionali di conservazione e cura dell’acqua; lo sviluppo del turismo sostenibile come filiera integrata di ospitalità diffusa, culturale e ambientale; la promozione di progetti di cooperazione e scambio solidale “mediterranei”, che potenzi le peculiarità geografiche e storico-culturali della regione; l’incremento delle infrastrutture di mobilità, comunicazione e logistica di terra e di mare per la valorizzazione dei sistemi territoriali locali e la loro fruizione anche paesaggistica e turistica; il riconoscimento e la valorizzazione dell’immenso e pluristratificato patrimonio dei beni culturali; la tendenziale autoriproducibilità dei cicli dell’alimentazione (filiere corte fra produzione e consumo) dei rifiuti (rifiuti zero e riciclo della sostanza organica), dell’energia (produzione diffusa per autoconsumo) dell’acqua (equilibrio del bilancio idrico) e cosi via.
Sfidando la violenza omologante dei processi di globalizzazione, il PPTR ambisce a fondere in processi concorrenti e cooperanti le attività economiche, la salvaguardia dell’ambiente, la rigenerazione delle risorse, il restauro urbano, le culture locali, i monumenti urbani e rurali, la qualità conviviale del vivere insieme, la difesa della bellezza, la creazione di nuovo paesaggio.
In una parola, il Piano non ambisce a promuovere sviluppo, come si dice da decenni, con un termine ormai sdrucito che testimonia l’esaurimento storico della cultura capitalistica dell’ultimo cinquantennio.
Esso propone un percorso che porta a un nuovo assetto della nostra civiltà, progetta forme superiori di vita collettiva.
Il documento del Piano intanto mostra che cosa significa il termine paesaggio al di là delle retoriche correnti.
Esso va «inteso non solo come veduta, “bello sguardo” ma indagato, decifrato si nella sua bellezza, ma soprattutto nelle regole della sua formazione storica, come specchio dell’anima dei luoghi e come teatro in cui va in scena l’autorappresentazione identitaria di una regione, “come parte essenziale dell’ambiente di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità“ (art 5 della “Convenzione europea del paesaggio).
In questa accezione esso è un giacimento straordinario di saperi e di culture urbane e rurali, a volte sopite, dormienti, soffocate da visioni individualistiche, economicistiche e contingenti dell’uso del territorio; ma che possono tornare a riempirsi di significati collettivi per il futuro.
Il paesaggio è il ponte fra conservazione e innovazione, consente alla società locale di “ripensare se stessa”, di ancorare l’innovazione alla propria identità, alla propria cultura, ai propri valori simbolici, sviluppando “coscienza di luogo” per non perdersi inseguendo i miti omologanti della globalizzazione economica». Occorre, dunque, protendere uno sguardo lungo verso il futuro.
Tutto il presente del capitalismo mostra una incontenibile tendenza: produrre sempre più merci con sempre meno valore.
Avanza a scala mondiale una produzione standardizzata di beni sempre più vasta.
Non è un caso che scompaiano i lavori e le professioni sostituibili con procedimenti automatizzati.
Perciò il valore dei beni tende a rifugiarsi in ciò che non è standardizzabile, industrialmente riproducibile.
Il nostro paesaggio, i nostri monumenti, la nostra storia, non sono replicabili, ma custodiscono una fonte inesauribile di valore.
E non rappresentano delle nicchie, come amano dire riduttivamente gli sviluppisti: al contrario sono la nostra Arca, beni incontendibili dell’avvenire.
Certo la Puglia, come qualsiasi altra realtà regionale e locale è un avamposto limitato.
Nessuno può fermare la storia mondiale che avanza.
Ma questa si può subirla, accettando gli interessi dominanti, soggiacendo alla sua furia omologatrice, o affrontarla da protagonisti, con progettualità, filtrandola e adattandola alla nostra storia originale, arricchendola dei nostri caratteri, contribuendo a valorizzare e a rafforzare, con una rete mondiale di alleati, gli elementi di emancipazione cosmopolita che essa pur sempre contiene. L’articolo è stato contemporaneamente inviato al manifesto.