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Rodolfo Bosi
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Home Archivi

In morte della miniera

28/12/2015
in Archivi, Governo del territorio, Natura, News, Piani territoriali
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Ultima miniera di carbone.

La ruota smette di girare

il sole tramonta

con amarezza.

Sono le prime righe di una poesia che lo scrittore inglese Ian Mcmillan ha scritto in occasione della chiusura, nei giorni scorsi, dell’ultima miniera sotterranea di carbone del Regno Unito, quella di Kellingley, nello Yorkshire, Inghilterra nord orientale.

Finisce così un’era cominciata nel Medioevo quando si è scoperto che il carbone poteva sostituite il legname come fonte di calore, salvando così i boschi dalla distruzione.

Il carbone è stato il motore della rivoluzione industriale in Inghilterra e poi in Germania, Francia e negli altri paesi europei e poi negli Stati Uniti.

In Inghilterra sono state fatte le principali scoperte che hanno spianato la strada al trionfo del carbone.

Già nel Seicento si è visto che il carbone fossile, estratto dalle miniere, si prestava alla produzione di ferro e acciaio per trattamento del minerale molto meglio del carbone di legna, e nei primi anni del Settecento fu scoperto che risultati ancora migliori si potevano avere trasformando, per riscaldamento in camere di acciaio chiuse, il carbone fossile in carbone coke, più resistente alla pressione.

Era così possibile costruire forni (gli altiforni) di maggiori dimensione e produrre ferro di migliore qualità e con minori costi.

La chimica ha permesso poi di scoprire che i gas che si liberavano insieme al coke bruciavano con una fiamma luminosa; nei primi anni dell’Ottocento cominciava la diffusione delle lampade a gas e “la luce”, proprio quella alla cui celebrazione era stato dedicato l’anno che sta finendo, illuminava le strade, le case, le biblioteche, le fabbriche.

Una storia travagliata perché ben presto si è scoperto che la combustione del carbone era fonte di inquinamento, che l’estrazione del carbone dalle miniere sotterranee era accompagnata da crolli ed esplosioni e morti dei lavoratori, condannati ad una vita faticosa all’oscuro, in mezzo alle polveri.Le dure condizioni di lavoro e i miseri salari imposti dai primi spietati campioni del capitalismo spinsero i minatori a dar vita alle prime organizzazioni sindacali, a imparare parole come sciopero e lotte per nuovi diritti e dignità.

In morte della miniera.

Poche merci come il carbone hanno stimolato gli scrittori nella denuncia delle miserevoli, dolorose e pericolose condizioni di lavoro.

Il libro Il re carbone (1917) del socialista americano Upton Sinclair (1878-1968) e i due romanzi Le stelle stanno a guardare (1935) e La cittadella (1937) del medico inglese Archibald Cronin (1896-1981) stimolarono le autorità per un maggior rigore nel controllo della sicurezza dei lavoratori delle miniere di carbone.

L’uso del carbone provocava la liberazione di polveri che si rivelarono mortali; l’esistenza degli idrocarburi aromatici policiclici cancerogeni fu scoperta cercando le cause del tumore che si manifestava negli operai delle cokerie e negli spazzacamini che venivano a contato con la fuliggine.

D’altra parte il lavoro nelle miniere assicurava un salario alle famiglie più povere che lasciavano i campi alla ricerca di meno misere condizioni di vita.

In questo mondo di contraddizioni il carbone continuava il suo cammino trionfale, estratto in quantità sempre maggiori al punto che l’economista inglese William Stanley Jevons (1835-1882) nel 1865 scrisse il libro Il problema del carbone, affermando che se fosse continuato lo sfruttamento delle miniere inglesi un giorno le riserve di carbone si sarebbero esaurite.

Le scoperte di altri giacimenti, a profondità sempre maggiori, ha permesso all’Inghilterra di continuare a estrarre carbone fino ad un picco di produzione di 290 milioni di tonnellate all’anno nel 1913.

A partire dal 1950 comincia il declino del carbone inglese ed europeo non per l’esaurimento delle riserve ma per la comparsa di un invadente e aggressivo concorrente come fonte di energia, il petrolio.

Fra le cause del declino del carbone c’è anche la difficoltà di trasporto; essendo un combustibile solido il carbone deve essere caricato su navi e treni carbone in maniera scomoda e costosa, mentre il petrolio che è un liquido e, ancora di più poi, il gas naturale, appunto un gas, possono essere trasportati mediante condotte o navi in modo molto meno costoso.

Benché l’Unione Europea sia nata nel 1950 come Comunità del carbone e dell’acciaio, il carbone europeo ha subito, nella seconda metà del Novecento, un continuo declino; le ferree leggi del libero mercato hanno portato alla progressiva chiusura delle miniere sotterranee in Belgio, Francia, Germania; in Inghilterra le prime drastiche chiusure si ebbero nel 1984 con il governo conservatore e l’ultima chiusura è delle settimane scorse.

Una storia piena di luci e di ombre e non fa meraviglia che gli ultimi minatori abbiano salutato con malinconia la perdita del posto di lavoro che non era solo un salario, ma anche l’orgoglio di aver fatto la storia del mondo contemporaneo.

Il carbone comunque non è scomparso dalla scena delle fonti di energia, con i suoi otto miliardi di tonnellate estratti nel mondo, quasi la metà in Cina, seguita da Stati Uniti, India, Australia, e tanti altri paesi che sul carbone basano il loro impetuoso successo economico; la Germania estrae carbone da miniere a cielo aperto.

Le riserve di carbone e lignite nel mondo ammontano a circa mille miliardi di tonnellate; dal carbone dipende ancora gran parte della produzione di acciaio, di elettricità, di prodotti chimici.

Con tutti i suoi limiti per motivi ambientali, il re non è morto.

 

(Articolo di Giorgio Nebbia, pubblicato con questo titolo il 20 dicembre 2015 su Eddyburg)

 

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