Articolo di Paolo Grisieri pubblicato il 19 dicembre 2014 su “La Repubblica”.
Stanno seduti intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta.
Sono i 10 signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi più poveri della Terra.
Non sempre sono nomi noti in Italia.
Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez.
Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez.
Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia.
«I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola — spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia — sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti.
In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».
A rendere chiaro il quadro c’è il paradosso del ricco Epulone, il protagonista della parabola evangelica.
Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso.
«Sono due prodotti dello stesso sistema — osserva Barbieri — perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo».
Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di redere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo.
Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori.
È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao.
Si chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero.
«Già oggi – spiega Oxfam – sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente della superficie dell’Italia».
La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari.
Ci sono eccezioni quasi inevitabili come il latte e il vino.
Stiamo naturalmente parlando di grandi multinazionali.
Ma se nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina è una diversa cantina sociale), nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi in In Bev (Artois, Beck’s e la brasiliana Anctartica), i sudafricani di SAB Miller e gli olandesi di Heineken controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili.
Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè.
«L’esempio della birra — spiega Antonio Baravalle, ad di Lavazza — dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti».
Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora?
«Penso che ci sia un limite. Fondersi ancora di più non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori».
Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza.
Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsicola (66,5 miliardi).
Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55).
A fondo classifica la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui.
Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni.
«Ma può anche accadere – spiega Baravalle – che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di un marchio perché non lo considera abbastanza globale».
È quel che è successo, ad esempio, con la scelta di Mondelez di cedere i suoi marchi del caffè.
Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé e Unilever e oggi in maggioranza detenuta da un fondo di investimento.
Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto, secondo le valutazioni delle multinazionali, è quello di essere forte solo su alcuni mercati.
Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato.
Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.
Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo?
Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo.
Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi.
Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo assai più virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale.
Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio.
L’Italia è certamente uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte.
Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica.
Un paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù.
Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane.
L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali.
L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s.
Le altre sono molto più indietro.
La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta.
Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1).
Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.
È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale.
Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni.
L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: «Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia – premette Baravalle – ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici».
Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente ed ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo.
Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti.
Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si tratta genericamente di “oli vegetali”.
Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva?
Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni può essere utile.
Anche per i signori del cibo.