Pubblichiamo il quarto della serie di articoli dedicati al dissesto idrogeologico dell’Italia.
È un articolo di Alberto Ziparo pubblicato il 18 novembre 2014 su “Il Manifesto”.
Alberto Ziparo
Le cifre che stanno venendo fuori a proposito dei disastri territoriali di questi giorni – con eventi meteo esasperati dai cambiamenti climatici che si abbattono su un territorio indebolito dalla ipercementificazione – sono da autentica guerra.
Un Rapporto Cresme/Ance ricorda che nel periodo 1985–2011 si sono registrati quasi mille morti da dissesto idrogeologico, per oltre 15 mila eventi calamitosi e un danno economico da circa 3,5 miliardi di euro all’anno.
Se si computa dagli anni sessanta, a partire dal disastro del Vajont e dalle alluvioni di Venezia e Firenze i morti diventano più di 4 mila.
L’Italia paga le conseguenze di decenni di incuria e di sostanziale attacco alle sue stesse caratteristiche eco-paesaggistiche.
Esse, fino a qualche decennio addietro, avevano correlato virtuosamente ambiente e insediamenti; di più, avevano sempre connotato questi ultimi secondo le caratteristiche ecologiche e culturali dei contesti.
Da cui il soprannome di Belpaese.
Negli ultimi decenni, la grande trasformazione ha significato grande cementificazione: il Belpaese si è trasformato in «città diffusa»; con salti di senso comune, e anche semantici e lessicali.
Le grandi componenti eco-paesaggistiche del territorio italiano sono state via via rinominate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diventata «megalopoli padana»; la «grande conurbazione costiera» ha occupato l’intera cimosa litoranea adriatica; e analogamente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media città toscana», «la campagna urbanizzata romana» e «Gomorra», l’infernale marmellata insediativa del napoletano, inquinata, congestionata, ad alto tasso di illegalità.
E ancora la città costiera continua calabra, a fronte dello svuotamento dell’interno; gli orridi abusivi siciliani – che offendono un paesaggio altrimenti notevole; le «grandi macchie urbane» delle città sarde.
Gli entusiasmi per la modernizzazione antropizzata del Paese si sono da tempo trasformati in preoccupazioni per le conseguenze di un insediamento abnorme e quanto dannoso e paradossale: oggi in Italia abbiamo, oltre a qualche miliardo di volumi industriali e commerciali e tante incompiute infrastrutturali spesso inutili, un edificio ogni 4 persone, ma un alloggio su 4 e oltre 20 milioni stanze risultano vuote; tuttavia fanno notizia i disagiati, tuttora senza casa, e tra di essi, il migliaio di occupanti, probabilmente legittimati da tale situazione).
Con costi ambientali e sociali che infatti sono cresciuti sempre più.
Oggi, la criticità di questa condizione irrompe in tutta la sua drammatica evidenza.
Da Genova a Milano, dal Piemonte al Veneto, da Roma alla Sicilia, i temporali causano disastri: rilievi e versanti abbandonati franano sugli insediamenti sottostanti; la pioggia rigonfia fiumi, torrenti e ruscelli, che diventano condotte forzate, trovano le aree di propria pertinenza trasformate in brani di città e rompono alla fine gli argini, anche perché le costruzioni hanno bloccato le vie di fuga dell’acqua.
Si registrano così i fenomeni dei «vasconi urbani», dentro cui annegano oggi quartieri di Genova e Milano, come di Roma e, qualche mese fa, di città e paesi emiliani, veneti o sardi.
Il Governo tenta adesso di scaricare ogni colpa sui predecessori o sulle Regioni; ma – fino alla drammatica emergenza di questi giorni – ha perpetuato e addirittura alimentato le cause del disastro.
Lo dimostrano il Ddl Lupi – che pretenderebbe di accentuare ulteriormente la deregulation e svuotare la pianificazione di potere normativo e descrittivo – e lo «Sblocca Italia».
Quest’ultimo provvedimento è teso a promuovere altre attività ad alto impatto ambientale: dalle trivellazioni, a nuovi impianti a rischio, alle autostrade, a nuova Alta Velocità.
Al suo interno, prima degli eventi tragici degli ultimi giorni, la lotta al dissesto idrogeologico era appena una citazione di opportunità: 3 miliardi dichiarati per 200 milioni realmente disponibili.
E a fronte dei quasi 5 miliardi stanziati per le operazioni ad alto impatto; tra cui si resuscitano progetti di autostrade da tempo superati, come la bizzarra Mestre-Orte o la Pi-Ru-Bi cara alla massoneria filodemocristiana.
Nelle ultime ore – sull’onda emotiva degli eventi — l’esecutivo annuncia lo sblocco di 2,2 miliardi antidissesto, e quindi un piano di 9 miliardi in 7 anni.
Serve che gli impegni si traducano in risorse reali e per un programma molto più ampio: è necessario un piano di risanamento del territorio da 50 miliardi di euro nei prossimi dieci anni; di cui almeno il 10% da impiegare subito.
Se si pensa di ricorrere per questo ai «300 miliardi di euro di investimenti europei promessi da Junker» si rischia di restare agli annunci o di dilazionare troppo le operazioni.
Lo «Sblocca Italia» – come hanno già proposto gli ambientalisti – deve diventare «Salva Italia», finalizzando le risorse per intero e soltanto al risanamento del territorio, e cancellando tutte le altre opere inutili e dannose contenute nel provvedimento.
Deve essere ripristinata una strategia invisa al nostro attuale premier: le politiche devono basarsi sulla pianificazione di territorio e paesaggio.