Il 12 maggio 2015 nella Sala San Leonardo di Venezia si è svolto il dibattito pubblico «La presa di Venezia», dedicato al problema della svendita del patrimonio immobiliare pubblico e ai modi per contrastarlo, organizzato da Corte del Fontego editore, da Eddyburg.it e dalla sezione veneziana di Italia Nostra.
Il dibattito ha preso le mosse dai numerosi interventi di cessione o di cambio di destinazione d’uso concessa su edifici di uso pubblico da parte del Comune, a cui su questo stesso sito sono statui dedicati ieri due articoli: si è soffermato tra l’altro sulla ristrutturazione a grande magazzino del Fontego dei Tedeschi, sulla rinuncia all’uso Pubblico delle Procuratìe Vecchie a favore delle Generali e anche sulla trasformazione dell’ex Pilsen in Bacino Orseolo in uno “store” della Zara.
Ha coordinato il dibattito Edoardo Salzano: sono intervenuti Stefano Boato, Lidia Fersuoch, Andrea Grigoletto e Paola Somma di cui riportiamo la seguente relazione, pubblicata il 5 giugno 2015 sul sito “Eddyburg”.
1. La mappa con la localizzazione degli immobili e/o delle aree pubbliche cedute ai privati negli ultimi anni, o la cui alienazione è stata annunciata, mostra l’enorme dimensione di un fenomeno che sta travolgendo l’intero territorio comunale.
Perché viene venduto il patrimonio pubblico?
Come vengono prese le decisioni?
Quali effetti la sistematica privatizzazione di pezzi di città ha sull’intera città?
Per capire quello che sta avvenendo, più che di vendita, termine che richiama l’esistenza di un contratto tra due parti consenzienti, il venditore e l’acquirente, è utile adottare un lessico di guerra e parlare della PRESA di Venezia.
Se fossimo in guerra, la mappa mostrerebbe le posizioni che abbiamo perduto e, allo stesso tempo, verrebbe usata al quartier generale del nemico per evidenziare le posizioni espugnate.
In ogni caso rende visibile l’entità della preda, la cui conquista frutta un ricco bottino a chi se ne impadronisce.
C’è un tesoro in comune (L’Espresso, 1 giugno 2010), titolava un giornale qualche anno fa e spiegava come “grazie al cambio di destinazione d’uso, i beni demaniali ceduti dallo Stato possono facilmente raddoppiare, triplicare e perfino quadruplicare il proprio valore” .
Nello stesso articolo si chiariva che “il business della devolution non finisce solo nelle casse dei comuni, ma anche nelle tasche di chi ha fiuto per gli affari”.
2. Quali sono le forze che si contendono i beni pubblici?
Da un lato ci sono le città, nel senso di civitas, cioè l’insieme dei cittadini, indipendentemente dalle loro ricchezze o dalle cariche che ricoprono, dall’altro gli investitori che hanno “fiuto per gli affari” – Tra le due parti c’è il governo, ad ogni livello territoriale, che per definizione è investito della promozione del benessere collettivo, ma che di fatto è schierato a sostegno di chi si sta appropriando di ogni bene pubblico.
Così, il governo centrale trasferisce beni del demanio ai comuni, affinché i comuni li vendano.
“Regali piovono sul comune”, dicono i giornali, dimenticandosi di specificare che si tratta di regali “in transito” e che il beneficiario finale non sono i comuni, ma soggetti privati. (vedi http://www.vasonlus.it/?p=12977) (vedi https://www.rodolfobosi.it/arrivano-regali-al-comune-il-demanio-cede-immobili/)
Inoltre, il governo crea appositi meccanismi e strutture, tra le quali la Cassa Depositi e Prestiti con i suoi fondi d’investimento immobiliare, col preciso scopo di “stimolare e ottimizzare i processi di dismissione di patrimoni immobiliari degli enti pubblici che presentino un potenziale di valore inespresso, per esempio legato al cambio d’uso”.
Tali strutture operano sull’intero territorio nazionale, ma ovviamente, sono più aggressive dove la preda è più ricca.
Cassa Depositi e Prestiti scatenata alla conquista di Venezia (Venezia Today, novembre 2014) è l’efficace titolo con cui si illustra l’attività della Cassa che “sta acquistando a basso costo immobili e isole per riutilizzarli per operazioni di carattere turistico e alberghiero”.
Infine, un ruolo non secondario nella smobilitazione del patrimonio pubblico è affidato alle molte istituzioni, società ed enti titolari di un patrimonio che è dei cittadini – dall’azienda sanitaria all’Università, all’azienda dei trasporti locali.
Tutte vengono di fatto, e spesso di diritto, scisse in due tronconi.
Ad uno si conferisce il patrimonio immobiliare, e lo si trasforma in una vera e propria società di sviluppo immobiliare (vedi ACTV e PMV), all’altro, sempre più impoverito resta il compito di erogare i servizi e diventa una “bad company”.
3. In questo scenario o teatro di guerra, tutti gli amministratori che negli ultimi 20 anni hanno governato Venezia hanno scelto di non valorizzare nulla e di dismettere tutto, e l’hanno fatto senza coinvolgere i cittadini o contro la loro espressa volontà.
Tutte le decisioni che si sono tradotte in una perdita di patrimonio pubblico (dalla creazione del fondo immobiliare alle svendite di palazzi) sono state assunte dal sindaco e dalla sua squadra che hanno operato come quinta colonna degli investitori privati.
«Dobbiamo arrangiarci e saperci vendere», ha detto nel 2009 l’ex sindaco Cacciari.
E nel sito web della Direzione Sviluppo Territorio ed Edilizia una apposita rubrica è stata dedicata al Marketing Urbano e Territoriale, nella quale si esalta la partecipazione a tutte le fiere del settore immobiliare (Expo Italia Real Estate, Urban Promo, Tre Eire, Mipim) e le azioni sostenute per segnalare agli operatori del “comparto Real Estate le opportunità di investimento”.
A questi eventi i funzionari del comune si recano con il portfolio delle “occasioni in offerta” che comprende, di volta in volta, Forte Marghera, l’Ospedale al Mare, i palazzi ceduti al Fondo Immobiliari. 4. La propaganda si è rivelata una delle armi più efficaci per prevenire e neutralizzare le reazioni delle comunità e indurci a consegnare senza resistenza il patrimonio di noi tutti.
D’altronde, chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra, dicono gli strateghi militari.
L’argomento più usato è quello secondo il quale la vendita del patrimonio è “funzionale al ripiano del debito pubblico”.
Dal momento, però che malgrado le continue vendite il deficit di bilancio continua ad aumentare, è opportuno chiedersi se il nesso causale tra debito e vendite non vada invertito.
Forse il comune intraprende grandi opere inutili e persevera in grandi sprechi perché mette in bilancio ipotetici guadagni o perché sa che più si indebita più potrà vendere.
Il Comune è con l’acqua alla gola, titola Repubblica nel maggio 2010, e aggiunge «se non vende i suoi tesori rischia di non poter saldare i conti del Palazzo del Cinema».
Il che significa che prima si è decisa l’operazione Palazzo del cinema e poi si “scoperta” la necessità di vendere l’ospedale.
Allo stesso modo, prima si è deciso che Venezia ha bisogno di un tram per portare milioni di turisti da aeroporto al porto, poi si è stati “costretti” a svendere il deposito di mezzi ACTV in via Torino.
Il risultato è che sull’area un privato ha costruito un grattacielo, mentre l’ACTV deve affittare spazi per i veicoli e compensare le costanti perdite con l’aumento dei biglietti.
Se le vendite non servono a ripianare i debiti, bisognerebbe quindi chiedersi se l’obiettivo dichiarato del pareggio di bilancio sia il vero obiettivo o se, in realtà, il vero scopo non sia quello di far si che il comune resti sempre indebitato.
Un comune senza debiti, infatti, non sarebbe obbligato a svendere, e non c’e miglior tattica per costringere alla resa gli assediati che prendere la città per fame.
5. Le vendite del patrimonio pubblico non solo non rispondono a nessun requisito di razionalità economica, ma producono anche una serie di danni collaterali.
Il comune, infatti, per rendere i beni più appetibili ai privati, non si limita a fissare prezzi molto vantaggiosi, ma offre o è disposto a “negoziare“ apposite varianti urbanistiche con relativo aumento di cubatura, nuova edificazione, rimozione di vincoli d’uso (si dice ad esempio che la cessione della Biblioteca di Mestre potrebbe portare a 5 mila metri cubi di nuova edificazione, la scuola Manuzio ha una potenzialità 22 mila metri cubi, l’Ospedale al Mare “si porta in dote” il piano di valorizzazione del Lido).
Oltre ad impoverire la collettività, le privatizzazioni contribuiscono a cedere ai privati, in quanto proprietari, il compito di fare il piano e a legittimare il primato degli interessi particolari nel determinare le scelte del governo urbano.
Sono quindi il risultato di una serie di azioni concertate con gli investitori da parte dello stato che rompe il contratto sociale con i cittadini per facilitare l’estrazione di profitto privato.
6. Se non siamo di fronte a episodi di “compra vendita di immobili”, ma alla conquista da parte dei privati, con la complicità delle istituzioni, delle porzioni più appetibili del territorio e del ruolo di pianificatore della città, più che privatizzazione dovremmo parlare di privatismo e soprattutto dovremmo chiederci se dopo aver perso tante battaglie è ancora possibile rovesciare l’andamento della guerra?
Fra le azioni per contrastare il fenomeno, indispensabile è svelare la manipolazione del linguaggio, il bombardamento di copertura ideologica con la quale i mezzi di comunicazione raccontano al cittadino derubato i miracoli delle svendite, partendo dai termini rigenerazione – rinascita -rinascimento -riqualificazione – con i quali le azioni finalizzate ad incrementare la redditività dell’investimento privato vengono osannate come benefiche per tutta la collettività.
Lo stato si libera di spiagge, forti, isole è un trionfale titolo del Gazzettino, nel 2010, uno dei tanti esempi del modo con cui lo stravolgimento lessicale corrisponde ed è funzionale allo stravolgimento della democrazia urbana.
Tra i termini con i quali si esalta la rapina del patrimonio pubblico, restituzione è forse quello che meglio esprime la malafede da parte di chi lo usa – amministratori, tecnici, mezzi di informazione – perché alla fine di queste restituzioni, la collettività non possiederà più nulla.
La presunta equivalenza tra la privatizzazione di un immobile pubblico e la sua restituzione alla città viene propagandata con un artificio retorico.
Si sostiene cioè che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, “aperto al pubblico” .
È un argomento sostenuto da chi privilegia le “pratiche” d’uso rispetto all’assetto proprietario e ritiene che pubblico sia ogni spazio dove è possibile “l’interazione tra le persone” (come in un cinema, un bar, un centro commerciale).
Bisognerà, poi, ricostruire le vicende di ogni bene simboleggiato dai bollini rossi sulla mappa, a cominciare dall’Arsenale, la rocca della nostra città, il cui assedio è cominciato oltre 30 anni fa.
Nel 1980, Paolo Portoghesi allora direttore della Biennale disse di voler usare la Biennale come “cavallo di Troia per aprire l’Arsenale”.
Nel 1993 uno degli slogan della fortunata campagna elettorale di Massimo Cacciari fu “abbattiamo le mura dell’Arsenale!”
Né in un caso, né nell’altro i cittadini hanno ascoltato Cassandra, finché non è stato chiaro a tutti che “Arsenale restituito ai veneziani” (La Nuova Venezia, 2012) significa in realtà Arsenale lottizzato e assegnato ai vari potentati che si stanno spartendo la città, dal Consorzio Venezia Nuova alla Biennale.
Per completare la missione pochi mesi fa il commissario Zappalorto ha dato incarico a NAI Global Italia, una società di consulenza, intermediazione immobiliare e gestione di fondi immobiliari, di “testare la sensibilità degli investitori, identificare una forchetta di valori immobiliari nei 28 lotti” indicati dal comune all’interno dell’Arsenale.
Infine, la millantata “restituzione” dello spazio pubblico ha una valenza politica e culturale oltre che economica, perché consente ai privati di impossessarsi non solo di ingenti beni materiali, ma dell’idea stessa di comunità urbana.
Non a caso Paolo Baratta, il presidente della Biennale che in passato è stato ministro delle privatizzazioni del governo Amato e ministro del commercio estero del governo Dini ha rilasciato una serie di interviste nelle quali detta l’agenda alla futura amministrazione e reclama un «patto urgente per fare fronte comune e trovare risorse per nuovi interventi in Arsenale»… «io sono un po’ preoccupato”, ha detto “perché la logica di farne un’area urbana aperta come un qualsiasi altro spazio della città rischia di trasformarlo nel giro di una generazione in un’area edificabile come qualsiasi altra … perché si fa presto a dire pubblico, bello applaudire al passaggio dal Demanio al Comune ma con i chiari di luna in fatto di finanziamenti, il rischio è il ritorno degli immobiliaristi”. Di fronte all’arroganza di chi si crede il governatore di un enclave occupata dalla quale organizzare sortite per occupare la città, anche noi chiediamo un patto con la futura amministrazione, perché dopo la rapida ricognizione delle perdite faccia, con i cittadini, un piano realistico di ricostruzione del patrimonio pubblico, nella consapevolezza che esiste un rapporto stretto tra la ricostruzione dello spazio fisico e di quello politico.