Articolo di Marino Niola, pubblicato con questo titolo il 20 agosto 2015 su “La Repubblica”.
Il riscaldamento globale compie tremila anni.
A inaugurare l’era del cambiamento climatico sono stati i nostri antenati europei, che hanno dato letteralmente fuoco alle foreste del continente per aumentare le superfici coltivabili e incrementare l’allevamento del bestiame.
A dirlo è uno studio condotto dall’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Cnr, insieme all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Il titolo del progetto parla chiaro.
«Europe on fire 3000 years ago: arson or climate?» (Europa in fiamme 3000 anni fa: incendio doloso o clima?).
L’equipe internazionale, guidata da Carlo Barbante, professore di Chimica analitica nell’ateneo lagunare, ha appena pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters i risultati di questa ricerca che getta una nuova luce su chi ha scagliato la prima pietra dell’inquinamento atmosferico.
In realtà l’indagine ridimensiona le colpe della rivoluzione industriale, fino ad ora ritenuta la grande responsabile del disastro ecologico.
A fornire la prova regina è stata una carota di ghiaccio, lunga 2.537 metri, estratta nel Nord-Ovest della Groenlandia. (vedi https://www.rodolfobosi.it/macchina-del-tempo-di-ghiaccio-individuata-in-antartide/)
Una specie di sonda lanciata nelle profondità del tempo che ha consentito ai ricercatori di fare un salto indietro di ben 128.000 anni.
Grazie a una metodologia innovativa, sviluppata dal team di scienziati, è stato possibile rilevare le tracce di una forte attività incendiaria risalente a circa tremila anni fa.
E non riconducibile a eventi naturali.
In altre parole, una catena di incendi dolosi con conseguenti deforestazioni.
Di questa task force di “forestali della storia” fa parte anche il celebre paleoclimatologo William Ruddiman, professore emerito all’Università della Virginia e padre della teoria dell’Early Anthropocene.
Da sempre convinto che l’era dell’impatto ambientale dell’uomo sul pianeta, il cosiddetto Antropocene, non sia cominciata con la rivoluzione industriale ma qualche millennio prima, cioè con quella agricola.
L’uomo, insomma, si è messo ad allungare le mani sull’ecosistema quando la civiltà delle macchine, la plastica, le emissioni di gas serra, le scorie nucleari, non erano neanche in mente dei.
E soprattutto quando la popolazione del pianeta superava di poco i cento milioni di anime.
Più o meno gli abitanti attuali di Italia e Francia messi insieme, ma con l’universo mondo tutto per sé. E che in quel tempo lontano sia accaduto qualcosa di veramente forte lo testimoniano le parole di Platone che, 2500 anni fa, nel Crizia, uno dei suoi dialoghi più famosi, denuncia la deforestazione sistematica del suolo dell’Attica.
Quella terra verde e florida, dice il grande filosofo, è stata letteralmente spolpata, fino a ridurla uno scheletro.
E di fatto la potenza ateniese pagò come prezzo la distruzione dei boschi e della vegetazione spontanea, per far fronte ad una complessa serie di bisogni economici, militari e sociali.
Legna da ardere e per costruire navi.
Ma anche disboscamenti per produrre più cibo.
Platone arriva addirittura a prevedere fenomeni tristemente attuali come il land grabbing, l’accaparramento delle terre, e come l’effetto serra, con conseguente desertificazione del mondo.
Insomma l’idea dell’apocalisse ecologica non è un’invenzione dell’integralismo ambientalista contemporaneo.
L’ambientalismo di ieri e di oggi hanno però in comune l’attribuzione di ogni responsabilità agli uomini, cattivi e imprevidenti, che saccheggiano la terra senza curarsi del domani.
Lo dice anche Plinio il Vecchio, che rimprovera ai suoi contemporanei di «assistere con orgoglio da dominatori alla rovina della natura».
Siamo solo nel primo secolo dopo Cristo e di cattiva strada da allora ne abbiamo fatta molta.
Quel che colpisce è che questi ragionamenti venissero fatti quando la popolazione mondiale era più o meno la cinquantesima parte di quella attuale.
E al confronto di oggi il mondo era un Eden.
Si potrebbe obiettare che ogni epoca misura l’apocalisse a partire dai suoi parametri e dai suoi problemi.
Il che è plausibile.
Ma questa storia sembra pure insegnarci che, ora come allora, è insito nell’uomo un doppio atteggiamento.
Di onnipotenza da un lato e senso di colpa dall’altro.
Entrambi proiettati sullo sfondo di una “natura” che non è altro che il riflesso delle nostre attese e paure.
In fondo è come se la civiltà fosse da sempre bipolare.
Divisa tra la fede nello sviluppo e il timore di avere osato troppo.
Di avere superato il limite.
Limite che cambia con i tempi, ma resta sempre come monito e come fantasma.
Soglia etica e frontiera conoscitiva.
È quel che emerge chiaramente dall’ultima Enciclica di Papa Bergoglio, Laudato si’, francescanamente green ma al tempo stesso lontana da ogni spiegazione semplicistica.
Viene da pensare che in molti casi perfino la nostra auto-colpevolizzazione sia l’altra faccia di un’arroganza superomistica.
Tipica di chi pensa che la natura sia alla nostra mercé.
Nel bene come nel male.
Perché, senza nulla togliere alla fondatezza di molta riflessione ecologista, il rapporto uomo-ambiente è più complesso e multifattoriale di quanto di solito non immaginiamo.
E questa ricerca sull’Europa in fiamme ce lo ricorda opportunamente.
L’articolo è stato pubblicato lo stesso giorno anche su “Eddyburg” con la seguente postilla che VAS condivide pienamente: “Non è la prima né sarà l’ultima, questa ricerca, a indicare la radice degli sconvolgimenti planetari in alcuni comportamenti umani precedenti all’era dell’ancora detestata (a quanto pare) industrializzazione nel segno dell’imbrigliamento dell’energia: vapore, elettricità, carbone, petrolio, e poi la civiltà dei consumi di tutto quanto.
Forse è il caso di ricordare, per chi coltiva studi territoriali, che anche le primordiali civiltà urbane crollarono per micro o macro tragedie ambientali e climatiche prodotte da attività umane di trasformazione del territorio, ne sono esempi assai noti e studiati quelli della Valle dell’Indo, della Mesopotamia, di diverse civiltà urbane precolombiane in America.
Detto in altre parole, non esistono attività dell’uomo buone (l’agricoltura magari biologica o comunque «sostenibile») e altre cattive (la trasformazione di tipo industriale con uso di energie).
Esiste solo il nostro rapporto con l’ecosistema, da conoscere in modo approfondito e da non alterare in modo stupido e suicida.
Per esempio, cosa non nota a tutti, è proprio dagli studi sul crollo delle civiltà urbane citate sopra, e non dalle fantasie di qualche architetto chiacchierone, che nasce la teoria originaria della vertical farm, concetto agricolo produttivo ed ecologico, non edilizio come ama pensare qualcuno pronto alla condanna a prescindere (f.b.)”