Con questo articolo di Maria Pia Guermandi (archeologa classica, che lavora presso l’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna), pubblicato il 13 aprile 2014 sul sito www.eddyburg.it e contemporaneamente sul L’Unità on line, continuiamo a porre l’attenzione sulla questione del nostro patrimonio artistico che abbiamo iniziato il 13 marzo 2014 pubblicando un articolo dal titolo “Quel bene di tutti chiamato paesaggio” (http://vasonlus.it/?p=4024#more-4024).
Ad esso il 9 aprile 2014 seguito l’articolo di Salvatore Settis dal titolo “Il nostro patrimonio artistico in bilico tra pubblico e privato” (https://www.rodolfobosi.it/il-nostro-patrimonio-artistico-in-bilico-tra-pubblico-e-privato/ ).
Il 10 aprile 2014 abbiamo pubblicato l’articolo dal titolo “Patrimonio culturale, Montanelli aveva già scritto tutto” (https://www.rodolfobosi.it/patrimonio-culturale-montanelli-aveva-gia-scritto-tutto/) di Tomaso Montanari, di cuil’11 aprile 2014 abbiamo pubblicato l’articolo sempre di Maria Pia Guermandi sul suo libro dal titolo “Istruzioni per l’uso del futuro: il patrimonio culturale e la democrazia che verrà” (https://www.rodolfobosi.it/istruzioni-per-luso-del-futuro-il-patrimonio-culturale-e-la-democrazia-che-verra/).
Maria Pia Guermandi
Su questo blog sono state scritte spesso parole di critica non indulgente nei confronti di chi, soprattutto nei posti chiave del ministero dei beni culturali, non sa interpretare la propria funzione con sufficiente capacità di visione e, con una suicida rincorsa al compromesso, condanna il nostro patrimonio culturale ad un ruolo di subalternità politica e sociale.
Ciò che rimproveriamo all’apparato dello Stato, in questo ambito, è di derogare con troppa facilità e in troppe occasioni ai propri compiti costituzionali, quelli stabiliti dall’art. 9, soprattutto ai vertici, abbandonando per di più chi, nello stesso Ministero, presidia il territorio, alle pressioni e agli attacchi di coloro che su questo territorio hanno robusti interessi privati, talora pure illegittimi, da difendere. Eppure, anche di fronte all’evidenza del massacro delle nostre coste, allo sprawl urbano che deforma campagne e periferie, ai nostri centri storici trasformati in centri commerciali all’aperto invivibili per i cittadini, ai monumenti che crollano e ai musei che chiudono, ciò che sempre più spesso negli ultimi mesi e settimane, con toni crescenti e da sedi diverse, si rimprovera al sistema della nostra tutela e alle Soprintendenze è l’esatto contrario, ovvero di incarnare quella “burocrazia” responsabile di “congelare la modernizzazione e paralizzare l’aspetto urbanistico delle città” (G. Valentini, La Repubblica, 9 marzo 2014).
L’attacco alla “burocrazia”, sono le recentissime parole del premier, dovrà pertanto essere “violento”, perché solo sconfiggendola, è il mantra ripetuto da fonti sempre più numerose, si rimuoverà uno degli intralci più gravi allo sviluppo del paese.
Quando, nel 2008, si aprì, con lo scoppio della crisi finanziaria a livello globale, l’attuale fase economico-politica, solo pochissimi riuscirono a intravedere la stretta connessione con il contemporaneo (e anzi, seppur di poco, precedente) fenomeno della riforma della pubblica amministrazione che interessò molti paesi dell’area euro e fra questi l’Italia.
Con il pretesto di un roosveltiano piano di grandi opere che avrebbero dovuto rilanciare l’economia, si cominciò a smontare programmaticamente il complesso sistema di controlli che, nel nostro paese come altrove, presiedono al governo del territorio: la parola d’ordine di quest’ultimo lustro è quindi stata “semplificazione”.
A distanza di 6 anni, nella completa assenza di qualsiasi effetto keynesiano di tale politica, questa “riforma” strisciante, effettuata a colpi di tagli lineari, ha prodotto una confusione normativa che ha moltiplicato esponenzialmente le difficoltà dell’azione amministrativa, ma ha sicuramente raggiunto lo scopo di indebolire, fin quasi alla paralisi, uno dei principali organismi di controllo, il Ministero dei beni culturali.
Ciò nonostante, il processo, invece di essere sottoposto almeno ad una verifica, sta subendo, come detto, un’accelerazione che si nutre di nuovi supporters.
Quando, per invocare la necessità della riforma del Mibact (sacrosanta, ma in direzione diametralmente opposta), alcuni organi di stampa, in una cupidigia di servilismo, come la chiamava Ernesto Rossi, scavalcano il limite della deontologia professionale, si oltrepassa un confine pericoloso.
In questa direzione ogni mezzo diviene lecito, anche il “metodo Boffo”: è accaduto per Andrea Emiliani, già mitico Sovrintendente bolognese e fondatore dell’Istituto Beni Culturali dell’Emilia Romagna, vittima di un attacco di Valentini che all’uopo ha riciclato vecchie polemiche e false notizie.
Andrea Emiliani
Nel 1974 – quarant’anni fa – ne Una politica dei beni culturali, Andrea Emiliani stilava quella che rimane una delle più lucide analisi delle criticità nella gestione del patrimonio culturale, ancora in gran parte attuale (tanto che il mio Istituto, IBC, la sta ripubblicando).
In quel prezioso PBE Einaudi, in cui per la prima volta con tanta chiarezza si sottolineava il nesso inscindibile fra territorio-paesaggio e patrimonio culturale, sostenendo la necessità di un più aggiornato ed efficace sistema di tutela, Emiliani scrive: “Si risponderà che soltanto una società diversa e una diversa cultura possono garantire al bene culturale quel privilegio superiore che andiamo cercando. Opporremo che sì, soltanto una società e una cultura realmente democratiche possono liberare la tutela dagli impedimenti di forze avverse“.
Oggi ancor più che allora, le ragioni di chi tutela il patrimonio si rivelano strettamente collegate a quelle della democrazia e, proprio per questo, ci chiamano tutti, indistintamente, a raccolta.