Alla fine del 2017, l’immagine di un astice è diventata virale in rete, ed ha attirato l’attenzione di mezzo mondo.
La fotografia è stata scattata da Karissa Lindstrand, una pescatrice di crostacei professionista al largo dell’isola di Grand Manan, regione del New Brunswick, in Canada.
La signora canadese stava legando le chele del povero animale, quando si è accorta del logo della Pepsi impresso come un tatuaggio su una di esse.
Grande conoscitrice della bevanda gassata americana (ha dichiarato di berne una dozzina al giorno), ha immediatamente riconosciuto i colori del marchio, ed ha deciso di fare delle fotografie e di metterle in rete. La notizia in breve tempo è rimbalzata in maniera virale ed è stata riportata da social network e magazine di tutto il pianeta.
Due domande vengono immediatamente in mente: innanzitutto, come può essere rimasto impresso il simbolo della Pepsi sul corpo dell’animale?
Forse è rimasto prigioniero di una lattina, una bottiglia od una scatola che hanno riversato i colori sul suo carapace.
La seconda: dodici lattine al giorno non saranno forse troppe?
A questa seconda domanda è invece impossibile dare una risposta scientifica.
Una certezza è invece l’inquinamento di tutti gli oceani: si calcola che ogni anno finiscano nelle acque marine tra le cinque e le tredici milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, in parte poi ingeriti da uccelli marini, pesci ed altri organismi.
E poi, ovviamente, dall’uomo.
La famosa navigatrice Ellen Macarthur ha lanciato un allarme: entro il 2050 nel mare, in termini di peso, vi potrebbe essere più plastica che pesce.
In effetti siamo oggi perfettamente coscienti che gli oceani stanno lottando per la sopravvivenza.
La temperatura dell’acqua del mare sta aumentando, le microplastiche vengono ritrovate analizzando l’acqua di tutti i mari del mondo, nel Pacifico c’è un’isola fatta di plastica grande tre volte la Francia; in più gli stock ittici sono più bassi che mai.
È inutile nascondere la testa sotto la sabbia: l’uomo sta radicalmente cambiando gli oceani, così come li conosciamo ora.
Ci sono però dei positivi passi in avanti, ed il primo sta nella presa di coscienza del problema, ormai noto a tutti.
Il secondo che sono state avviate delle iniziative volte alla lotta contro questo tipo di inquinamento.
Una delle ricerche più importanti ha voluto trovare una risposta alla domanda chiave: da dove viene tutta questa plastica?
Chi la produce?
Gli attivisti di Greenpeace, in collaborazione con il movimento Break Free From Plastic, hanno arruolato 10.000 volontari che si sono impegnati in 42 paesi del mondo a portare avanti il più ambizioso progetto di pulizia dalla plastica e ricerca del marchio mai avvenuto.
Dopo nove mesi di lavoro, 239 eventi di pulizia delle acque e 187.000 pezzi raccolti, gli attivisti sono riusciti ad individuare le multinazionali che più contribuiscono al problema dell’inquinamento plastico globale, ed i risultati sono stati pubblicati ad ottobre 2018.
Questa la top ten delle aziende mondiali più ritrovate tra i rifiuti: 1) Coca Cola ,2) Pepsi ,3) Nestlé, 4) Danone , 5) Mondelez International (la Kraft), 6) Procter & Gamble, 7) Unilever, 8) Perfetti Van Melle, 9) Mars Incorporated, 10) Colgate Palmolive.
Ne conoscete forse qualcuna?
La causa fondamentale sono le plastiche usa e getta, quelle che vengono immediatamente gettate dopo l’uso o l’apertura, per esempio quelle usate per contenere il prodotto in vendita e mostralo al possibile acquirente perché trasparenti.
Quale può essere una via d’uscita?
Fare diventare queste aziende parte della soluzione, anziché del problema.
Per quanto il singolo individuo possa essere attento, ed effettuare ad esempio la raccolta differenziata, prima o poi dovrà comunque buttare i contenitori di plastica.
E se la raccolta differenziata è difficile da noi, immaginate in un paese in via di sviluppo.
È necessario quindi che all’interno di queste aziende avvenga una presa di coscienza del problema.
E siccome alla fine ciò che importa è il business, e questo si fonda sulla pubblicità, Greenpeace ha inventato #isthisyours: un semplice, ma intelligente Hashtag.
Ogni volta che trovi un pezzo di plastica dove non ci dovrebbe essere, prendilo, scatta una foto e condividilo sui social media taggando il marchio.
Geniale, no?
Ci sono già quasi 12.000 post su instagram.
«È tuo?»
È quello che stanno chiedendo ai marchi il cui inquinamento fatto di plastica sta colpendo il nostro pianeta.
Quando la fotografia è scattata sott’acqua, l’impatto è ancora più forte, perché la maggior parte delle persone non conosce il mondo sottomarino.
Una pressione sufficiente da parte dei consumatori potrebbe indurre le grandi aziende, per le quali l’immagine è fondamentale, a valutare alternative all’imballaggio monouso e non biodegradabile.
Investire nella ricerca di opzioni sostenibili è costoso, e viene fatto solo se porta un tornaconto al fatturato.
Quello che dicevamo prima.
Facendo girare questa iniziativa e riempiendo i social su cui sono presenti le aziende con immagini dell’inquinamento plastico che hanno prodotto, attiriamo l’attenzione su pratiche ambientali irresponsabili, producendo pubblicità negativa. In più cambiamo il soggetto carico di responsabilità per azioni inquinanti: non più il singolo consumatore, ma l’azienda che produce quello che diventerà rifiuto.
Nel frattempo durante il mese di marzo, il Parlamento Europeo ha varato nuove norme per la salvaguardia dell’ambiente, vietando l’uso di articoli di plastica monouso.
Entro il 2021 nei territori dell’Unione Europea non potranno più essere utilizzati prodotti come le posate ed i piatti di plastica, le cannucce, i cotton fioc, ed alcuni tipi di plastiche per contenitori alimentari. Gli stati membri dell’unione dovranno anche impegnarsi nella raccolta delle bottiglie di plastica, mentre maggiori responsabilità verranno addossate alle aziende che dovranno etichettare i prodotti che possono avere un impatto negativo sull’ambiente: si saprà sempre così chi li ha fatti.
Fra gli eurodeputati italiani, a votare contro questa legge innovativa, sono stati solo alcuni esponenti della Lega e di Forza Italia.
Ad aprile poi un gruppo di attivisti di Greenpeace e di Break Free From Plastic è intervenuto all’assemblea degli azionisti della Nestlé a Losanna, in Svizzera.
La direttrice esecutiva di Greenpeace International, Jennifer Morgan, ha invitato i dirigenti e gli azionisti della multinazionale svizzera a diventare leader di mercato nella ricerca di soluzioni ecosostenibili per combattere la crisi ambientale a cui stiamo assistendo.
“Nestlé sosteneva di prendere sul serio il problema, ed invece nel 2018 ha prodotto 1,7 milioni di tonnellate di plastica, il 13% in più dell’anno precedente” ha sottolineato la Morgan.
Un’altra manifestazione è poi avvenuta alla fabbrica della San Pellegrino di Bergamo, anch’essa di proprietà della Nestlé.
In Italia hanno cominciato a muoversi anche le istituzioni: è stato infatti presentato il progetto della Guardia Costiera #plasticfreegc, una nuova campagna di sensibilizzazione contro la dispersione delle microplastiche nell’ambiente marino e costiero che prevede il coinvolgimento di tutta la Guardia Costiera e dei singoli subacquei.
Il progetto, supportato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, è già stato reso operativo da parte dell’ammiraglio Giovanni Pettorino, comandante generale del corpo delle Capitanerie di Porto.
Un vento nuovo ha cominciato a soffiare, facciamolo girare. Come recita un post pubblicato su #isthiyours, “Tu hai due case: la Terra ed il tuo corpo.
Prenditi cura di entrambe.”
(Articolo di Paolo Ponga, pubblicato con questo titolo il 6 giiugno 2019 sul sito online del quotidiano “il manifesto”)