Si dice che, se passerà il referendum, saremo costretti a chiudere i rubinetti al 60-70% della produzione nazionale di gas naturale.
Sarà vero?
Il 17 Aprile si terrà il referendum sull’estrazione di idrocarburi in Italia.
Per ora è sicuro solo un quesito, mentre altri due potrebbero aggiungersi dopo il 9 marzo, in base a quanto deciderà la Consulta.
Concentriamoci allora per ora solo sull’unico quesito sicuro.
CHIUDERE O NON CHIUDERE?
Innanzitutto va chiarito che, contrariamente a quanto si crede, non sono coinvolte le nuove perforazioni, bensì le sole concessioni marine già in essere.
Per capire cosa prevede, si deve fare un passo indietro, al periodo 2010-2013, quando tre distinti decreti hanno ridotto drasticamente le aree marine aperte a nuove perforazioni, vietando nuove concessioni marine entro le 12 miglia dalla costa e dalle aree protette e aprendo un’unica nuova area nel mar Balearico, contigua ad analoghe aree spagnole e francesi (zona E). [1 – Decreto legislativo n. 128/2010, Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, Decreto Ministeriale 9 agosto 2013. Per un sintesi si veda l’edizione speciale del Bollettino Ufficiale delle Risorse e Degli Idrocarburi, Marzo 2015, Il Mare, pubblicata dal DGRME-MISE.]
In figura 1, si può osservare la variazione intervenuta.
Figura 1: zone marine aperte alle attività minerarie, prima del 2008 e dopo il 2013. Fonte: DGRME-MISE, Il Mare, edizione speciale del Bollettino Ufficiale delle Risorse e Degli Idrocarburi, Marzo 2015.
Tali divieti si applicano solo alle richieste di concessioni successive al 20/6/2010.
Per tutte le concessioni richieste prima di questa data, è possibile ottenere proroghe alla loro scadenza sino a quando il giacimento non sia esaurito.
E qui si inserisce il quesito referendario, il cui significato si può riassumere così:
Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?
In pratica, se il quesito dovesse passare, alla scadenza delle concessioni nelle aree ora vietate, le piattaforme e i pozzi ancora attivi dovranno cessare le attività.
Ma quanto petrolio e gas rimarrebbe nei giacimenti in questione?
Parecchio a sentire le voci che circolano in rete:
…in pratica con già tutte le strutture fatte, i tubi posati sul fondo del mare e senza dover fare nessuna nuova perforazione, saremmo costretti a chiudere i rubinetti delle piattaforme esistenti da un giorno all’altro rinunciando a circa il 60-70% della produzione di gas nazionale (gas metano stiamo parlando e non petrolio). Non potendo da un giorno all’altro sopperire a questo fabbisogno con le fonti rinnovabili il tutto si tradurrebbe in maggiori importazioni ed incremento di traffico navale (navi gassiere e petroliere) nei nostri mari, alla faccia dello spirito ambientalista che anima i comitati promotori e con sostanzioso impatto sulla nostra bolletta energetica.
A parte l’errore ortografico (“gasiere”), la contraddizione (afferma che non perderemmo petrolio ma ci sarebbero più petroliere in transito) e la scarsa conoscenza di come avvengono i trasporti per il gas naturale (per la quasi totalità attraverso metanodotti), rimane interessante capire se quel 60-70% di produzione persa “da un giorno all’altro” è credibile oppure no.
FUORI I DATI
Gli unici dati ufficiali in proposito sono quelli della Direzione Generale per le Risorse Minerarie ed Energetiche(DGRME), che fa capo al Ministero per lo Sviluppo Economico.
Di seguito ne forniamo una sintesi ragionata e semplificata.
Per chi è interessato a saperne di più, c’è la nota [2 – La DGRME-MISE mette a disposizione l’elenco delle piattaforme entro o oltre le 12 miglia marine. Varie piattaforme fanno poi capo ad una stessa concessione, e solitamente ogni concessione ha tutte le piattaforme o dentro o fuori il limite delle 12 miglia (tranne che per la B.C 3.AS, vedi nota [3]). Per ogni concessione il DGRME-MISE fornisce i dati della scadenza, delle proroghe e i dati storici di produzione, benché a volte con alcuni errori. Nella presente trattazione si è deciso di considerare per brevità solo le concessioni marine aventi piattaforme e pozzi marini eroganti. Alcune concessioni hanno però solo pozzi marini, senza piattaforme, o solo piattaforme che raccolgono la produzione di pozzi a terra. Tali concessioni non sono state qui mappate. Ecco perché la somma delle varie percentuali attribuite al gas naturale vede un ammanco di 3-4 punti percentuali. Ci sono poi concessioni che presentano dati anomali, come la B.C 18.RI,(scadenza 2018) senza piattaforme e senza pozzi, che ha una produzione di gas (molto bassa) solo nel 2014 e nel 2015. Non viene poi citata, ma c’è anche una piccola produzione di petrolio da concessioni scadute e di cui è stato richiesto il rinnovo. Per la produzione di petrolio e di gas totali 2015, sono state usati i dati DGRME-MISE di produzione mensile distinti per concessione. Per i dati di consumo di metano e petrolio 2014 nazionali, stato usato il BP Statistical Review 2015. Molte piattaforme di produzione di gas naturale, producono anche gasolina (le cosiddette benzine naturali, ottenute dalla condensazione della frazione più pesante del gas naturale) che nono sono state trattate perché comunque prodotte in quantità modeste.].
Le “concessioni di coltivazione” sono licenziate per un minimo di 20 anni, con possibilità di ulteriori proroghe di 10 o 5 anni.
Anche un paio d’anni prima che una concessione (o una sua proroga) scada, è possibile chiederne un’ulteriore proroga, il cui rilascio potrà avvenire anche dopo molti mesi dalla data di scadenza.
Ci sono quindi tre categorie di concessioni in mare.
A. Le concessioni oltre le 12 miglia, che non saranno toccate dal referendum. Su di esse insistono 43 piattaforme, di cui 31 eroganti, 9 non eroganti e 3 di supporto. Nel 2015 hanno prodotto 2,48 miliardi di metri cubi di gas, il 36% della produzione nazionale.
B. Le concessioni entro le 12 miglia, il cui permesso è già scaduto e di cui hanno già richiesto la prorogada mesi, se non da anni. Sono 9 concessioni in tutto, su cui insistono 39 piattaforme che nel 2015 hanno prodotto 622 milioni di metri cubi di gas, circa il 9% della produzione nazionale (1,1% dei consumi 2014). Queste concessioni, verosimilmente, saranno prorogate ancora una volta anche in caso di vittoria dei “si” al referendum, in quanto l’istanza di proroga è stata depositata quando era valida la vecchia normativa.
La produzione storica di queste concessioni evidenzia un picco nel 1994, quando aveva raggiunto valori pari a circa 10 volte quello attuale (vedi figura 2) .
Figura 2: Produzione storica di gas naturale dalle concessioni poste entro le 12 miglia, scadute e per cui è già stata richiesta la proroga. Per la fonte vedere la nota [2].
C. Le concessioni entro le 12 miglia, i cui permessi inizieranno a scadere a partire dal 2017 e termineranno nel 2027. Sono 17 concessioni [3 – Una concessione, con codice B.C 3.AS, presenta una delle cinque piattaforme oltre le 12 miglia. Nella presente trattazione la produzione erogata tramite questa concessione è stata considerata tutta “entro le 12 miglia”], che nel 2015 hanno prodotto 1,21 miliardi di metri cubi di gas, circa il 17,6% della produzione nazionale (il 2,1% dei consumi 2014). Tra queste, 4 concessioni hanno permesso anche una produzione di petrolio pari a 500.000 tonnellate, circa il 9,1% della produzione nazionale (0,8% dei consumi 2014). Queste concessioni, nel caso vincano i “si” al referendum, non potranno essere prorogate.
La produzione storica di gas naturale di queste concessioni evidenzia un picco nel 1998, quando aveva raggiunto un valore oltre 4 volte quello attuale (vedi figura 3) .
Figura 3: Produzione storica di gas naturale dalle concessioni poste entro le 12 miglia, ancora non scadute. La legenda riporta, prima del codice della concessione, l’anno in cui essa scadrà. Le concessioni sono ordinate dal basso verso l’alto secondo l’ordine con cui scadranno. Per la fonte vedere la nota [2].
In questa categoria, spicca la concessione D.C 1.AG (scadenza 2018) che da sola produce 557 milioni di metri cubi, l’8% della produzione nazionale nel 2015.
Per la vicinanza delle scadenza e l’ancora ingente livello produttivo, la chiusura di questa concessione rappresenterebbe una perdita significativa a livello nazionale.
La produzione storica di petrolio di queste concessioni evidenzia un picco nel 1988, quando aveva raggiunto un valore oltre 6 volte quello attuale (vedi figura 4).
Figura 4: Produzione storica di petrolio dalle concessioni poste entro le 12 miglia, ancora non scadute. La legenda riporta, prima del codice della concessione, l’anno in cui essa scadrà. Le concessioni sono ordinate dal basso verso l’alto secondo l’ordine con cui scadranno. Per la fonte vedere la nota [2].
Pur essendo in fase declinante da moli anni, queste quattro concessioni presentano una produzione ormai piuttosto stabile che non dovrebbe variare molto approssimandosi alle date di scadenza.
CONCLUSIONI
Gli allarmismi che circolano in rete su una perdita “da un giorno all’altro” del 60-70% della produzione di gas naturale, in caso vincano i “si” al referendum del 17 Aprile, sono esagerati.
Innanzitutto la maggior parte della produzione di gas in Italia è a terra (34%) o in mare oltre le 12 miglia (36%).
La tempistica sarebbe poi dilazionata nei prossimi anni, sia tra le concessioni già scadute (hanno da tempo richiesto una proroga che verrà probabilmente loro concessa in ogni caso) che pesano per circa il 9% della produzione di gas, sia tra le concessioni che scadranno d’ora in poi (le uniche a subire un eventuale effetto del referendum) che pesano ora per circa il 17,6% del gas e circa il 9% del petrolio prodotti.
Queste percentuali vengono ridotte di un fattore 10 se si considerano i consumi nazionali, anziché la produzione.
Complessivamente le percentuali citate corrispondono all’anno sui mercati a circa 360 milioni di dollari di gas naturale e a 180 milioni di dollari per il petrolio.[4 – Supponendo un prezzo di 5$/MBtu per il gas naturale e di 50$/Barile per il petrolio]
Una concessione che produce gas naturale e gasolina, la D.C 1.AG, presenta una produzione la cui interruzione, nel caso il quesito referendario passasse, rappresenterebbe una perdita significativa a livello nazionale.
Le perdite produttive imputabili ad una eventuale vittoria dei si, sarebbero del tutto trascurabili a livello continentale ed internazionale, e non produrrebbero quindi una variazione sensibile nei mercati dei prezzi del gas o del petrolio.
È quindi difficile pensare ad una ripercussione sui prezzi praticati al consumatore italiano.
(Articolo dell’Ing. Dario Faccini, esperto indipendente di Cremona, pubblicato con questo titolo il 7 marzo 2016 sul sito “Aspo Italia”)
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Dario Faccini
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Si ritiene utile riportare anche una parte dei commenti più significativi che sono stati fatti al suddetto articolo.
tobymallon | marzo 7, 2016 alle 7:22 pm |
L’articolo non è male, ma ragiona con i numeri.
Credete davvero che si terranno in produzione le piattaforme anche quando la produzione diventerà antieconomica?
E succederà presto, se non si fanno altre perforazioni… anzi credo che se non si aprirà l’alto Adriatico Ravenna chiuderà comunque.
fausto | marzo 9, 2016 alle 6:31 pm |
La produzione nazionale di idrocarburi resterà piuttosto attraente, visto che i nostri astuti amministratori applicano ad essa royalties bassissime. Resterà inevitabilmente piccola per carenza di riserve significative, ma nel suo piccolo comunque un ottimo affare per le compagnie. Un affare tra l’irrilevante ed il pessimo per i cittadini.
Daniele | marzo 11, 2016 alle 6:48 pm |
Buonasera. Articolo molto interessante in quanto cerca di far luce su questo referendum mettendo in campo dati e non la solita fuffa per strumentalizzare l’una e l’atra parte. Però la conclusione non mi ha convinto più di tanto. Lei si è basato soltanto sullo screditare (giustamente) le ripercussioni economiche per il consumatore, ma comunque per quanto mi riguarda ci sono dei pro per votare NO: infatti, facendo un rapido conto rispetto al volume delle più grandi navi gasiere esistenti (266.000 m3), si ha che eliminando il contributo di questi giacimenti si avrebbe un aumento di circa 4550 navi gasiere (1,21*10^9/266*10^3), dato che non mi sembra irrilevante. Inoltre la fine delle concessioni avrebbe un impatto negativo anche dal punto di vista dell’occupazione. Cmq, per quanto mi riguarda questo referendum non ha un granché senso in quanto mi sembrano giacimenti in esaurimento che forse diventeranno antieconomici nel giro di non molto tempo (magari per assurdo alla fine della concessione già esistente!!). Ancora complimenti per l’articolo, molto interessante.
Dario Faccini | marzo 11, 2016 alle 7:36 pm |
Come ho accennato nell’articolo, la maggior parte del gas naturale importato in Italia non proviene da navi che trasportano GNL, ma da metanodotti. http://www.sicurezzaenergetica.it/tag/algeria/ Di più: i metanodotti sono largamente sottoutilizzati. Non per niente anche gli attuali terminal GNL lavorano largamente al di sotto della loro capacità.
Daniele | marzo 12, 2016 alle 8:33 am |
Quindi, tirando le somme, la fine delle concessioni quali conseguenze reali avrebbe? Non voglio dire nessuna, ma mi sembra di aver capito che sono abbastanza “limitate”. L’unico impatto potrebbe essere per l’occupazione (non da sottovalutare) e forse a livello economico per le compagnie che sfruttano quei giacimenti, che comunque non penso basino i loro fatturati proprio su questo.
La ringrazio per la risposta in quanto estremamente interessante. Saluti
Dario Faccini | marzo 12, 2016 alle 10:55 am |
Stiamo provando a definire delle stime attendibili per l’occupazione. Appena le abbiamo le pubblichiamo.
Alessandro | marzo 12, 2016 alle 11:20 pm |
Buonasera. Se si votasse per non rinnovare le concessioni quale sarebbe la fine delle piattaforme esistenti? Verrebbero smantellate in sicurezza o lasciate li? Di chi sarebbe a carico l’eventuale smantellamento o manutenzione?
Dario Faccini | marzo 13, 2016 alle 8:29 am |
Come spesso accade, ciò che si vede è la punta dell’iceberg. Le piattaforme sono un problema relativo da un punto di vista ambientale. Per legge le aziende concessionarie devono trascinarle a terra e smantellarle, ma c’è la proposta di bonificarle e poi affondarle per creare hotspot biologici e punti di interesse per il turismo da immersione.
http://nuke.lucavignoli.it/Portals/0/ARTICOLO_resoconto_LabeLab.pdf
La procedure più complessa e costosa è invece la sigillatura dei pozzi, effettuata tramite l’iniezione a vari livelli di fanghi cementanti mediante l’utilizzo di un’apposita piattaforma “sigillatrice”, trasportata in loco per l’occasione.
Tutti i costi sono naturalmente in capo all’azienda concessionaria, con la supervisione del DGS-UNMIG del MISE (ex. DGRME).
http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/info/faq_idro.asp
Luca Xanadu | marzo 14, 2016 alle 5:58 am |
Bell’articolo ma resta da capire:
– Che ci si guadagna da un SI al referendum quindi!? anche se “””poco””” ma abbiamo da perderci (parliamo infatti di poco ma su un mercato che vale miliardi di euro dove anche il 2% non è una sciocchezza)
– Ancor di più il SI non ha senso essendo quasi tutte piattaforme gas e non petrolifere (che tra l’altro nei nostri mari non è a pressione) e con la norma in abrogazione non se ne faranno altre ma riguarda solo le concessioni esistenti….
– Unico dubbio è il “peso politico” del referendum. Non vorrei che il NO o il mancato quorum di un referendum posto volutamente male venga poi usato come pretesto per fare altre leggi che invece aumentino le concessioni ecc. (in questo caso direi grazie M5S, grazie Casaleggio per fare come sempre il gioco del renzipotere).
Dario Faccini | marzo 14, 2016 alle 7:58 am |
I vantaggi del SÌ sarebbero:
- innanzitutto il mantenimento strategico di una parte delle poche riserve di idrocarburi rimaste sul territorio nazionale; non si capisce perché l’oro debba essere custodito gelosamente mentre gli idrocarburi, che servono per mantenere servizi essenziali invece no; possiamo usare quello che ci viene venduto a prezzi stracciati da altri paesi produttori.
- Mandare un segnale di coerenza alle istituzioni: con la COP 21 di Parigi si è deciso di contrastare duramente i cambiamenti climatici lasciando quindi una parte degli idrocarburi nel sottosuolo, prima o poi dovremo pure iniziare, perché non adesso?
Gli svantaggi sono di lieve entità e sono quantomeno dubbi.
- occupazione: non è chiaro, forse sarebbe in aumento nel medio termine perché attualmente molte piattaforme coinvolte hanno solo personale di manutenzione e sistemi di telecontrollo, mentre la chiusura dei pozzi e la bonifica delle piattaforme comporterebbe una certe dosi di investimenti e lavoro. Le aziende italiane che lavorano nell’indotto dell’upstream hanno la maggior parte della clientela internazionale.
- perdita benefici per tassazione+royalties: probabilmente limitata, comunque già calata molto in seguito al calo del prezzo del petrolio.