L’articolo di Tomaso Montanari, pubblicato con questo titolo il 28 giugno 2015 su “La Repubblica”, pone l’accento su alcuni dei danni che derivano dalla modifica della Costituzione che ha separato la “tutela” dalla “valorizzazione”.
IL GOVERNO del patrimonio culturale italiano versa oggi in uno stato confusionale.
Come in molti avevano previsto, l’applicazione della riforma Franceschini (pur non priva di moventi condivisibili) rischia di dare il colpo di grazia al corpo, già provatissimo, delle soprintendenze e dei musei italiani.
Il punto più critico riguarda la rigida e meccanica «separazione della funzione di tutela da quella di fruizione/valorizzazione» (così l’ultima circolare della Direzione Mibact per l’Organizzazione): che è come la separazione tra la circolazione sanguigna e i muscoli di un corpo.
Gli effetti più gravi di questo ideologico smembramento riguardano il destino dei musei confluiti nei Poli regionali: cioè di tutti tranne che dei venti supermusei, i quali peraltro aspettano ancora i superdirettori che avrebbero dovuto essere nominati entro maggio.
La ratio della riforma, come fu pensata dalla commissione Bray (della quale faceva parte anche chi scrive), era quella di consentire una vera autonomia, in primo luogo culturale e dunque anche ammi-nistrativa, ad alcuni grandi musei: per farli diventare veri istituti di ricerca e di redistribuzione della conoscenza.
Ma la creazione parallela dei Poli museali regionali ha invece generato il caos.
Questi contenitori omnibus tengono insieme musei di rilevanza mondiale (si pensi alla Pinacoteca Nazionale di Siena) con piccolissimi siti (come il Castello di Lerici), e mescolano musei storico-artistici a musei di antichità, staccando questi ultimi dalle soprintendenze archeologiche.
L’unico criterio seguito è quello, brutalmente burocratico, della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si va nel calderone dei Poli, se non si paga è tutela, e dunque si rimane nelle soprintendenze.
Prendiamo il caso cruciale dell’archeologia: a chi devono essere assegnate, per esempio, le cassette colme di materiali di scavo non ancora studiati e inventariati?
Devono rimanere alle soprintendenze, come vorrebbe il buon senso, o confluire in piccolissimi siti museali spesso senza personale archeologico?
Ma anche i supermusei si troveranno alle prese con l’assurdo divorzio tra tutela e valorizzazione.
Il futuro direttore degli Uffizi — pur essendo uno storico dell’arte (sempre che alla fine non sia scelto tra i “manager” collegati alla politica: ipotesi che per ora va ricacciata nel novero degli incubi) — non potrà decidere né il restauro né il prestito di un suo dipinto senza il benestare della Soprintendente di Firenze: che è una architetto.
Né potrà usare come meglio crede il personale del proprio museo, farcito di custodi col dottorato di ricerca, cui però è proibito alzarsi dalla obsoleta sedia di sorveglianza.
E dunque, nonostante tutto, non sarà ancora un vero direttore.
Si aggiunga il fatto che passano di mano «gli immobili e i mobili», ma non li segue il personale: le risorse umane vengono assegnate ai Poli museali in via transitoria e provvisoria.
E per le fondamentali strutture (come i laboratori fotografici e quelli di restauro) si resta in attesa di un «piano di razionalizzazione»: che è difficile da partorire perché se è arduo smembrare (o accorpare: come nel caso delle nuove soprintendenze miste, che infatti non decollano) organismi complessi, è davvero impossibile farlo a costo zero.
Caratteristica, questa ultima, che è l’irredimibile peccato originale della riforma.
Si sta rivelando critico anche il rapporto tra i nuovi segretariati regionali e i soprintendenti: perché i primi tendono a intendere il proprio ruolo come quello dei vecchi direttori regionali, e dunque a intervenire nelle autonome scelte dei secondi.
E questi ultimi, già privati della valorizzazione, rischiano di essere di fatto svuotati da ogni funzione.
Certo, potrebbero dedicarsi finalmente alla tutela del territorio: difendendolo, per esempio, dalla cementificazione selvaggia.
Ma lo Sblocca Italia, e ora la riforma Madia della Pubblica Amministrazione, che in questi giorni approda in commissione, impongono il silenzio-assenso, togliendo di fatto l’ultimo compito alle morenti soprintendenze.
Sarà un caso, ma è stato Matteo Renzi a scrivere che «sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia».