L’articolo di Giorgio Nebbia, pubblicato con questo titolo il 20 luglio 2015 su “Eddyburg”, commemora la tragedia di Stava avvenuta il 19 luglio del 1985.
Era mezzogiorno e mezzo quel 19 luglio di trent’anni fa e i villeggianti, in parte ospiti dell’ACLI (l’associazione cattolica lavoratori) di Milano, erano a tavola negli alberghi di Stava, frazione del Comune di Tesero in provincia di Trento, quando una valanga di circa 200.000 metri cubi di fango ha spazzato via la loro vita e quella di altri abitanti della zona, 258 in tutto.
La massa di acqua e detriti era scesa su Stava, a 90 chilometri all’ora, in seguito alla rottura degli argini di due grandi bacini artificiali che si trovavano poco sopra il paese, pieni dei residui del lavaggio della fluorite estratta dalla vicina miniera di Prestavel.
La fluorite è il minerale costituito da fluoruro di calcio, impiegato come fondente nella produzione dell’alluminio e dell’acciaio, per la preparazione di ceramiche e per la produzione di composti chimici fluorurati.
La fluorite greggia, estratta da quella e da altre miniere del Trentino, era frammista ad altri minerali; per purificarla la roccia veniva macinata in fine polvere e veniva sottoposta a lavaggio con acqua e agenti chimici sospendenti; per quella particolare miniera, in Val di Fiemme, venivano utilizzate le acque dei piccoli torrenti nei quali erano anche reimmesse le acque residue del processo. La miniera di Prestavel aveva una lunga storia; era stata aperta nel 1935 in concessione alla Società Atesina per Esplorazioni Minerarie; nel 1941 la concessione era stata ceduta alla società Montecatini la quale, nel 1961 aveva ottenuto l’autorizzazione a costruire un primo bacino di decantazione del fango di lavaggio della fluorite; nel 1969 era subentrata la Montedison che aveva ottenuto l’autorizzazione alla costruzione di un secondo bacino, più grande e a monte del primo.
Nel 1974 la Montedison passò la concessione alla propria società Fluorite e fra il 1974 e il 1978 la miniera venne ceduta ad una società del gruppo ENI, la quale, infine, nel 1980 la trasferì alla società Prealpi Mineraria di proprietà di certi fratelli Rota.
Questi passaggi di proprietà avrebbero avuto importanza nel processo aperto dopo il disastro per accertare le responsabilità della costruzione e dei controlli sulla stabilità dei due bacini e degli argini il cui crollo aveva provocato la fuoriuscita del fango e la morte di tante persone.
La tragedia di Stava ebbe allora grande risonanza nazionale, tanto più che era avvenuta quando era ancora vivo il ricordo e il dolore della tragedia del Vajont, del 1963, con la morte di duemila persone ed erano ancora in corso i lenti processi contro i responsabili, con il palleggio di responsabilità fra la Edison che aveva costruito la diga e il lago artificiale, l’ENEL che ne era diventata da poco proprietaria, gli imprevidenti progettisti che non avevano tenuto conto del pericolo che dal monte Toc, sovrastante la diga, potesse scendere nel lago la frana che fece sollevare l’onda di acqua e fango che, scavalcata la diga, aveva sepolto il paese di Longarone.
Anche nel caso di Stava ci fu un lungo e lento processo, con testimonianze e perizie, le famiglie delle vittime furono difese, fra gli altri, dall’avvocato Sandro Canestrini, che era stato il difensore delle famiglie dei morti del Vajont, oggi novantenne, e dal geologo Floriano Villa che mise in evidenza che il crollo dei bacini della miniera di Prestavel era stato la conseguenza di macroscopici errori di localizzazione e di costruzione.
Nel corso del processo apparve che ne erano responsabili i vari proprietari della miniera, i dirigenti susseguitisi negli anni, i progettisti dei bacini, i tecnici degli uffici pubblici che, tutti, avrebbero dovuto vigilare e non lo avevano fatto.
Il processo si concluse nel 1992 con una prima sentenza e nel 2003 con il ricorso in cassazione; furono condannati dieci imputati, ma nessuno fece mai un solo giorno di detenzione.
Vi furono dei risarcimenti, ma quanto vale, in soldi, la vita umana ?
La catastrofe avvenne quando la miniera di Prestavel era ormai quasi esaurita e destinata alla chiusura, ma le scorie delle lavorazioni erano ancora li e forse vi sarebbero rimaste per sempre, se non ci fosse stato il tragico crollo degli argini dei bacini.
Anche qui si trattava della coda avvelenata di una delle tante attività industriali le cui fabbriche sono scomparse lasciandosi dietro rifiuti e contaminazioni ambientali.
Se veramente si volesse pensare e operare in termini di sostenibilità, come è di moda dire adesso, lo Stato dovrebbe lanciare un vasto programma di informazione sulle attività industriali passate e presenti che generano e lasciano scorie pericolose di cui spesso, col tempo, si dimentica perfino la composizione.
Sono quei “siti contaminati”, solo in parte identificati e la cui bonifica, pur imposta per legge, procede tanto lentamente.
Voglio concludere con le parole incise sulla lapide dei morti di Stava che fu benedetta da Giovanni Paolo II il 17 luglio 1988: “La loro perenne memoria sia di monito perché la superficialità, la noncuranza, l’approssimazione, l’incuria, l’interesse non debbano più prevalere sulla cura per l’uomo, la sacralità della vita umana, la coscienza delle personali responsabilità”.
Parole commoventi che invitano a non dimenticare i morti di quella lontana mattina d’estate, ombre ormai nella fila delle migliaia di morti nelle fabbriche, nelle città, nei campi, uccisi nel nome del profitto.