Su questo stesso sito oggi 7 febbraio 2015 è stato pubblicato un articolo dal titolo “A partire dalle buone intenzioni del ministro, il Parlamento approda a una legge inservibile“, che roporta il giudizio fortemente critico dell’architetto urbanista Vezio De Luci sulla proposta di legge sul “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”(C. 2039 Governo) (https://www.rodolfobosi.it/a-partire-dalle-buone-intenzioni-del-ministro-il-parlamento-approda-a-una-legge-inservibile/?preview=true).
Si riporta ora di seguito l’articolo di Maria Cristina Gibelli pubblicato con questo titolo il 31 gennaio 2015 su “Eddyburg”, che critica la proposta di legge sotto un altro aspetto..
Maria Cristina Gibelli è laureata in Architettura al Politecnico di Milano, insegna Politiche urbane e territoriali al Politecnico di Milano e tiene per supplenza il corso integrato Politecnico/Bocconi Economia urbana e pianificazione strategica. Predilige l’approccio comparativo internazionale e attualmente si occupa di pianificazione strategica territoriale e di politiche per il governo della dispersione insediativa. Ha pubblicato volumi e saggi in diverse lingue.
Maria Cristina Gibelli
Siamo nel 2015, dichiarato dall’ONU “Anno internazionale del suolo”.
Ma cosa sta per propinarci la fertile e instancabile attività di innovazione legislativa dell’attuale maggioranza?
Un disegno di legge su “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”(C. 2039 Governo) il cui testo base più recente, adottato il 20 gennaio scorso dalle Commissioni riunite VIII (Ambiente, territorio e lavori pubblici) e XIII (Agricoltura), contiene una temibile ulteriore occasione per l’aggressione delle campagne e degli spazi aperti: i “compendi neorurali periurbani”.
Il disegno di legge riparte nel suo impianto generale da due DDL formulati da precedenti governi, peraltro non approvati: la “legge Catania” e il successivo DDL del governo Letta.
Dei due disegni di legge eddyburg ha già a suo tempo sottolineato alcune fragilità, riconoscendo comunque al ministro dell’Agricoltura del governo Monti il merito di avere per la prima volta affrontato una questione cruciale lungamente disattesa dalla politica e dalla cultura urbanistica mainstream; e al governo Letta l’altrettanto importante merito di avere bloccato altre ben più criticabili proposte legislative presentate in Parlamento e di aver proposto una norma transitoria coraggiosa di efficacia immediata: il blocco triennale del consumo di suolo.
L’attuale governo disponeva insomma di una buona piattaforma da cui ripartire, per affrontare finalmente – anche se con un ritardo assolutamente censurabile rispetto ad altri paesi europei – e con strumenti normativi adeguati l’inarrestabile consumo di suolo che affligge il nostro territorio.
Cosa intende invece proporre, nell’anno della difesa del Suolo, il ddl in questione?
Non solo non fa propria la norma transitoria proposta a suo tempo dal governo Letta, che sarebbe stata davvero opportuna a fronte dei dati più che allarmanti sui ritmi di consumo di suolo e sulle continue calamità ‘naturali’ che colpiscono il paese grazie al dissesto idrogeologico determinato dalla incessante impermeabilizzazione dei suoli; ma propone una pericolosa novità che può delegittimarne l’intera struttura.
Nella testo base, all’articolo 5, introduce infatti, sposando un lessico – che appartiene a tutt’altro filone di pensiero, di iniziative legislative e di politiche urbanistiche locali oggi assai diffuse in ambito internazionale – i sedicenti “compendi neorurali periurbani”: una locuzione accattivante cui fa seguito un contenuto temibile e controintuitivo.
Leggendo il titolo dell’articolo 5, il pensiero infatti corre subito ai territori di frangia urbana/metropolitana in cui il ‘neoruralismo’ si traduce, o potrebbe tradursi, in piani e progetti di suolo coerenti con un principio di tutela degli spazi aperti: uno scambio virtuoso fra città e campagna che garantisce l’accesso a prodotti di qualità da parte dei consumatori urbani, e valorizza le filiere corte con prospettive positive per il reddito agricolo e l’economia.
Ma non è così, perché di tutt’altre funzioni sono ricettacolo i “compendi neorurali” del disegno di legge.
Al comma 1 si scrive che «Al fine di favorire lo sviluppo economico sostenibile del territorio, anche attraverso la riqualificazione degli insediamenti rurali locali, le regioni e i comuni, nell’ambito degli strumenti urbanistici di propria competenza, possono prevedere la possibilità di qualificare i predetti insediamenti rurali come compendi agricoli neorurali periurbani. Presupposto dell’attribuzione di tale destinazione urbanistica è il recupero edilizio, inclusa la ricostruzione, unitamente al recupero del patrimonio agricolo e ambientale».
Già il termine “compendio” impensierisce, poiché evoca una sommatoria, una sinossi e non un criterio di unitarietà degli interventi rispetto a uno scopo ambizioso ben identificato.
Il termine è infatti già oggi utilizzato per alcuni progetti di recupero di edifici e spazi abbandonati dalla produzione agricola nella campagne lombarde, per lo più riutilizzati per la realizzazione di uffici che svolgono attività in settori che nulla hanno a che vedere con il contesto rurale.
In secondo luogo, in assenza di una definizione statistica nazionale (quale è ad esempio quella adottata dall’INSEE in Francia), manca totalmente nella legge una precisa identificazione del territorio ‘periurbano’.
Se, come si evince dal comma 1, sono da ritenersi come tali tutti i territori extraurbani di tutti i comuni, l’uso del termine appare del tutto inappropriato e generico; anzi inaccettabile.
Se invece, a titolo di esempio, periurbane fossero da considerarsi soltanto le prime corone di città di notevole dimensione (ad esempio, le nostre Città Metropolitane), che sono peraltro quelle più aggredite dallo sprawl che letteralmente sta divorando gli ultimi e residuali territori agricoli, sarebbe opportuno stabilire che siano i governi metropolitani ad esprimere un parere di compatibilità sulle destinazioni d’uso nei “compendi”; nei contesti urbani policentrici, potrebbero essere le Unioni di Comuni.
Ma, soprattutto, è il termine “neorurale” che viene completamente travisato e interpretato in maniera davvero fluida, per non dire ipocrita.
Tralasciando la letteratura sociologica, il termine neorurale viene oggi utilizzato, in ambito di politiche agricole innovative (ma anche di politiche urbanistiche e di tutela ambientale), per identificare le nuove forme di produzione agricola di alta qualità strettamente integrate al mercato urbano che possono costituire un formidabile presidio contro la urbanizzazione estensiva e contro il modello liberistico che autorizza e perpetua lo sprawl insediativo.
È questa l’esperienza di molti paesi europei, ma anche di alcune aree metropolitane nordamericane. È di queste forme di produzione e riproduzione del territorio agricolo che si occupa l’Articolo 5?
Niente affatto, perché al di là dei creativi neologismi in libertà, basta scorrere il testo dell’articolato per indignarsi.
Dall’elenco delle destinazioni d’uso ammesse nei compendi neorurali si apprende che nel territorio periurbano sarebbero ammesse prioritariamente e indiscriminatamente destinazioni d’uso tipicamente urbane, di fatto consentendo l’ulteriore espulsione di attività deboli (in primis ovviamente le produzioni agricole) e mettendo ulteriormente a rischio la naturalità residua.
Si legge infatti al Comma 5: “ I compendi agricoli neorurali periurbani, in conformità alle disposizioni degli strumenti urbanistici, possono avere le seguenti destinazioni d’uso (NB: si noti anche l’ordine prescelto nell’elencazione):
a) attività amministrative e direzionali;
b) servizi ludico-ricreativi;
c) servizi turistico-ricettivi;
d) servizi dedicati all’istruzione;
e) servizi medici e di cura;
f) servizi sociali;
g) attività di vendita diretta dei prodotti agricoli od ambientali locali
h) altre attività non comprese nell’elenco ma considerate rilevanti per lo sviluppo economico sostenibile del territorio.”
Al Comma 6 si escludono invece le seguenti destinazioni d’uso:
- residenziale, ad esclusione delle necessità abitative connesse alle attività lavorative svolte nel compendio agricolo;
- produttiva di tipo industriale o artigianale.
Per tutte le attività ammesse sarebbe dunque possibile, se la legge venisse approvata in questa stesura, ottenere titoli edilizi abilitativi attraverso rigenerazione o demolizione e ricostruzione di fabbricati agricoli esistenti; e, di fatto, realizzare anche quote di residenziale per le funzioni previste nell’elenco.
Da notare inoltre che, rispetto alla versione immediatamente precedente del testo, che era del 22 dicembre 2014, sono state eliminate “le attività che completano la filiera della produzione e distribuzione agricola” che avrebbe invece avuto senso mantenere in una prospettiva di rilancio qualificato dell’agricoltura.
Tralasciamo ogni commento al comma 4, dove si invita a ricostruire sui fabbricati agricoli dismessi e demoliti realizzando “tipologie, morfologie e scelte materiche ed estetiche tali da consentire un inserimento paesaggistico adeguato e migliorativo rispetto al contesto dell’intervento”.
Si vuole suggerire di piazzare vecchi carretti e aratri davanti a stalle e fienili trasformati in “rural offices”?
Gli esempi già non mancano nella campagna lombarda.
Insomma: all’insegna del contenimento del consumo di suolo e della rigenerazione, si offriranno nuove opportunità all’insediamento di funzioni tipicamente urbane nei territori agricoli di frangia già pesantemente aggrediti e sfigurati da un’urbanizzazione estensiva che ne ha drammaticamente compromesso funzione produttiva e naturalità?
È così che il governo Renzi si prepara a festeggiare l’anno del suolo … en attendant la ‘legge Lupi’ per celebrarlo ancora meglio?