Molto opportunamente Guido Viale è intervenuto (il manifesto 23/4) sul movimento generato da Greta Thunberg per orientarlo verso una visione più ampia e connessa dei problemi (conversione ecologica) ed entro un percorso politico concreto.
Su quest’ultimo punto vorrei aggiungere delle ulteriori indicazioni, per evitare che il generoso sforzo di questa ragazza e di tanti giovani entrati sulla scena mondiale, si esaurisca in un movimentismo senza esiti.
E’ necessario che il Friday for future trovi immediatamente obiettivi determinati, su cui incanalare pressioni rivendicative incalzanti, e sappia anche mostrare concrete iniziative, a scala locale, in grado di invertire la tendenza al riscaldamento climatico, e al tempo stesso alimentando la volontà di lotta quotidiana dei militanti e dei cittadini.
Forse una prima cosa da sapere è che in Europa – terza per produzione di C02 dopo Cina e Usa – a dispetto degli accordi di Parigi e dell’ultima conferenza di Katowice, continua a sostenere con agevolazioni l’uso del carbone quale fonte di energia in gran parte dei paesi dell’Est: Romania, Repubblica Ceca, Estonia, Polonia, che addirittura ne dipende per l’80%.
Ma persino la Germania, pur virtuosa su altri piani, trae energia da questo fossile per un buon 40% del suo fabbisogno (Luca Manes, Inquinamento: la sfida più urgente, Micromega, 2019/2).
Ebbene, qui il movimento deve innescare fronti nazionali di lotta su un terreno rilevante per la diminuzione dell’effetto serra, oltre a chiedere a Bruxelles di cambiare le sue politiche.
Ma c’è un ambito di produzione di gas serra, meno noto, su cui le politiche dell’Unione svolgono un ruolo di prim’ordine: è la politica agricola comunitaria (Pac).
E’ vero che negli ultimi anni anche l’agricoltura biologica e integrata hanno cominciato a godere di aiuti comunitari, ma la Pac tiene ancora in piedi il modello agricolo della rivoluzione verde, quello esportato dagli Usa nel mondo e che contribuisce con cifre oscillanti tra il 20 e il 30% al riscaldamento climatico.
Il successo produttivo di questo modello, che ben presto ha generato in Europa fenomeni di sovrapproduzione, solo oggi mostra tutta la sua insostenibilità, non solo ambientale, ma anche energetica.
Come ha mostrato, D.A.Pfeiffer nel saggio del 2006, Eating fossil fuels («Mangiare carburante fossile»), tra il 1950 e il 1985 la produzione agricola mondiale, calcolata in cereali, è cresciuta del 250%.
Un risultato indubbiamente rilevante, che ha permesso una più ampia distribuzione di cibo su scala mondiale, anche se con gli squilibri che conosciamo.
Ma l’energia impiegata per ottenere tale risultato è nel frattempo cresciuta del 5000%.
Per produrre tanto e in eccesso – oggi nel mondo, quello ricco, finiscono nei rifiuti 1,3 miliardi di tonnellate di cibo – si è sfruttato, in maniera distruttiva, non solo il suolo, ma anche il sottosuolo.
In tale ambito la lotta dei giovani del Friday acquisterebbe un rilievo politico del tutto particolare.
L’agricoltura industriale che riscalda il pianeta si regge alla fin fine su uno sfruttamento bestiale del lavoro umano.
Alla base della redditività agricola attuale non c’è solo il petrolio, ma anche la schiavitù del lavoro.
Come è stato messo in luce da una ricerca recente, gran parte delle operazioni di raccolta nelle agricolture dei paesi ricchi si regge sul lavoro semischiavile dei migranti.
E’ quanto accade in Usa coi latinos, ma anche nel Regno Unito, in Spagna, nella Francia Meridionale, in Grecia, persino in Israele e nella Nuova Zelanda.
E naturalmente in Italia (G.Avallone, Sfruttamento e resistenza.Migrazioni e agricoltura in Europa, Ombre corte, 2017).
E’ grazie ai salari di fame che la grande distribuzione commerciale fa profitti vendendoci frutta, verdura e prodotti trasformati, confezionati in plastica e altri materiali e destinati a creare rifiuti e ulteriore inquinamento.
Il movimento può dunque rivendicare il sostegno esclusivo dell’Unione alle agricolture biologiche, e di prossimità, al piccolo allevamento, al lavoro contadino, che rigenera il suolo, protegge il paesaggio, limita l’effetto serra.
All’interno di questa visione, che critica alla radice anche il modello alimentare dominante, fondato sul consumo di carne e sul cibo industriale, c’è spazio per una politica attiva, in grado di rendere i giovani protagonisti di una rivoluzione culturale in parte già in atto.
Si dovrebbe pensare ai centri urbani come ecosistemi energivori che possono essere tuttavia modificati con una vasta campagna di rigenerazione urbana, in cui in tutti gli spazi liberi, nei luoghi degradati, nelle periferie, si piantano alberi, si impiantano orti, si raccoglie acqua, si fa della città un luogo in cui la natura ritrova nuova vita e funzioni di mitigazione del clima.
Al tempo stesso finalmente nascerebbe un movimento di massa contro la cementificazione: un altro fenomeno del capitalismo attuale generatore di riscaldamento climatico.
(Articolo di Piero Bevilacqua, pubblicato con questo titolo il 27 aprile 2019 su “il manifesto”)