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Riprendersi la città

10/01/2016
in Archivi, Governo del territorio, News, Piani territoriali
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Riprendersi le città.

“Autorganizzazione, appropriazione dei luoghi e produzione di urbanità”

Le città sembrano essere intensamente attraversate, in questa fase storica, da processi e pratiche di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi, dei propri contesti di vita.

Si tratta, in realtà, di esperienze molto diverse tra loro: dagli orti urbani alle forme di autogestione della città informale e autocostruita, dal parkour alle occupazioni a scopo abitativo, dagli spazi verdi autogestiti alle recenti occupazioni dei luoghi di produzione culturale (cinema, teatri, ecc.), dagli usi temporanei di spazi abbandonati all’utilizzazione degli spazi pubblici per attività collettive organizzate, ecc.

In questa varietà di situazioni, emergono alcune motivazioni, a diversi livelli: “di necessità”, di carattere politico e di carattere personale.

Queste tre dimensioni sono in realtà inscindibili e si influenzano reciprocamente.

Anzi, sono un elemento innovatore: ad esempio, l’azione e il pensiero politici sono ripensati anche in considerazione di una relazionalità profonda e di un rapporto con la vita quotidiana; così come le risposte ai bisogni sociali sono cercate all’interno di idee diverse di città e di pratiche alternative di convivenza.

Riprendersi le città.1.

Il lavoro sul campo evidenzia, però, un’altra motivazione, che emerge non solo nelle persone, ma nei collettivi, spesso nella dimensione sociale della convivenza locale, e cioè un bisogno di urbanità e di qualità di vita urbana.

È un bisogno che non risponde soltanto a giuste necessità basilari, ma che si radica anche nel bisogno di una qualità dell’abitare, intesa in termini di possibilità di plasmare e qualificare il luogo in cui si vive, di sentirlo come proprio, di ricostruire un rapporto costruttivo con la città (e non semplicemente di subirlo), di partecipare e di sentirsi corresponsabile delle scelte che riguardano il proprio contesto di vita, di creare condizioni per una socialità reale e profonda, di non subire modelli eterodiretti e condizionati soltanto dalle logiche economiciste dell’interesse e del profitto, di decolonizzare l’immaginario collettivo dai modelli imposti di abitare, di dare valore alla memoria e alla bellezza, di prestare attenzione alle storie degli abitanti e alla dimensione della quotidianità, di dare forma ad una progettualità collettiva.

Si tratta di dimensioni che l’attuale sviluppo della città sembra aver cancellato, e su cui converge un’attenzione che travalica le differenze sociali o culturali, perché va a interessare la persona nella sua essenza.

E allo stesso tempo, quello dell’urbanità è un bisogno costitutivo dell’idea stessa di appropriazione dei luoghi e di autorganizzazione, che altrimenti non potrebbero sussistere.

Conflitti e territori

Anche la dimensione del conflitto assume caratteri diversi.

Sembra assumere forme che non sono più quelle del confronto frontale sulle politiche, sostenuto da una diffusa mobilitazione sociale.

Per questo motivo, in alcuni casi il conflitto sembra perdere la sua valenza politica e la sua forza euristica e costruttiva.

D’altra parte, questo cambiamento può essere interpretato diversamente, e l’evoluzione del conflitto può anche rappresentare l’affermarsi di modi diversi dell’azione politica e l’esprimersi di energie innovative.

In alcune esperienze si rinuncia ad un conflitto diretto nel senso tradizionale del termine, pur mantenendo ovviamente un clima di conflittualità, per lavorare invece sulla costruzione di un’alternativa che è prima di tutto culturale e poi politica, attraverso la sua sperimentazione diretta nella pratica della propria organizzazione, attraverso la costruzione di relazioni con i propri territori di riferimento o di reti territoriali a livello cittadino e sovralocale, e – in alcuni casi – anche attraverso la ricerca di un riconoscimento istituzionale, preparato tramite un grande lavoro in campo culturale.

È su questo terreno, quello dell’elaborazione culturale, ovvero dell’elaborazione di possibili innovative categorie interpretative della politica e delle istituzioni, interpretata in un senso non egemonico, ma inclusivo, che si gioca l’affermazione di un’innovazione e di un’autonomia al di fuori dei tradizionali spazi del conflitto e del confronto politico, ritenuti inadeguati e di fatto colonizzati dalla prevalenza dell’economico sul politico.

Riprendersi le città.2.

Ripensare la politica

Alcune esperienze pongono direttamente ed esplicitamente diversi interrogativi sui modi di produzione della politica e delle istituzioni, inserendosi in un vasto dibattito e diventando spesso protagonisti di una specifica elaborazione culturale.

D’altronde anche le esperienze che non lo fanno esplicitamente, di fatto sollevano indirettamente il problema.

In primo luogo, un aspetto caratterizzante è la dimensione dell’azione, l’idea di costruire e realizzare la politica attraverso l’azione e la pratica.

La politica si elabora e si rielabora nel farsi dell’azione.

In secondo luogo, sembra rilevante l’obiettivo di ricostruzione di uno ‘spazio pubblico’ (concetto abusato e spesso trasformato in slogan), non più come categoria astratta della modernità e luogo logoro del dibattito politico tradizionale, ma come luogo di produzione della politica che affondi le radici nelle esperienze e nelle domande della quotidianità e della convivenza, e diventi la costruzione libera di idee a partire dal confronto e dalla condivisione sulle situazioni di vita e non da ideologie precostituite.

Uno ‘spazio pubblico’ quindi che si radica nelle esigenze e nelle domande delle persone nella vita di ogni giorno, che a quelle cerca risposte, che si confronta con le ragioni dell’altro, dove non è il prevalere di una posizione che importa o interessa ma il percorso del consenso, il processo che porta alla costruzione di una posizione condivisa e che risponde alle esigenze espresse e messe in comune.

Riprendersi le città.3.

In terzo luogo, mirano quindi a spostare i luoghi di produzione della politica e a ripensarne le modalità, rispetto a quelli tradizionali.

Queste esperienze sviluppano quindi il tentativo di ricostruire il politico, non più come categoria autonoma con sue regole specifiche, ma come in-between, a partire cioè dal ‘sociale’, come attributo del sociale, del vivere in relazione, in una sua forma che si potrebbe considerare più “basale”.

In conseguenza di questo approccio, ed è questo un quarto punto di particolare attenzione, le esperienze di autorganizzazione pongono il problema del ripensamento delle istituzioni.

Questo processo ricostruttivo che riparte dalle persone e dalle narrazioni trova la sua centralità nel territorio, come luogo della vita quotidiana, come luogo della presa diretta con i vissuti, con le esigenze personali che diventano sociali, come luogo della concretezza, dell’empatia e della convivenza.

Come già molti hanno affermato, perché la politica recuperi un significato è necessario che riparta dai territori; non come localismo ma come luogo della ricostruzione di senso.

Vi è la necessità di un re-incanto della politica.

Il ‘territorio’, come proprio ‘contesto di vita’, rappresenta proprio il luogo e il medium di un tale re-incantamento.

 

(Articolo di Carlo Cellamare, pubblicato con questo titolo il 4 gennaio 2016 sul sito http://comune-info.net/)

Carlo Cellamare è docente di urbanistica alla facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza.

Svolge attività di ricerca sui processi di progettazione urbana e territoriale e sulla partecipazione (con particolare attenzioni alle trasformazioni dei quartieri e alle politiche urbane per le periferie).

Tra le sue pubblicazioni: Culture e progetto del territorio (Franco Angeli, 1999), Labirinti della città contemporanea (a cura di, Meltemi, 2001), Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Elèuthera, 2008).

Altri articoli scritti per Comune sono qui.

La sua adesione alla campagna Facciamo Comune insieme è leggibile qua.

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