Articolo di Salvatore Altiero pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” del 23 aprile 2014.
Salvatore Altiero
Non ci sarebbe da stupirsi se i ministri cominciassero ad apparire in tv pubblicizzando offerte promozionali sulla vendita di pezzi del territorio del Belpaese.
Notizia recente, solo per rendere l’idea, è l’asta telematica dell’Agenzia del demanio per la vendita di Poveglia, antico insediamento fortificato della Repubblica Serenissima in mezzo alla Laguna di Venezia alla bocca di porto di Malamocco, 3 isolotti collegati tra di loro, 75.000 metri quadrati di cui 5.000 edificati, dopo decenni di abbandono e tentativi finiti male di utilizzo con finalità turistico-culturali.
Da un lato il governo vende territorio, privatizza servizi e patrimonio immobiliare pubblico come fossero set di pentole, dall’altro c’è chi comincia a capire che si tratta di beni di tutti la cui privatizzazione e sottrazione alla disponibilità di enti locali significa impoverimento collettivo.
Roma, città stritolata dall’emergenza abitativa: sono solo della settimana scorsa le immagini delle violente cariche della polizia contro gli occupanti di uno stabile abbandonato da anni in via Baldassarre Castiglione, dove 150 famiglie senza casa avevano trovato risposta ad un diritto negato, quello all’abitare, che la prefettura continua invece a trattare come un problema di ordine pubblico.
Roma, città di immobili abbandonati: Palazzo Nardini, uno tra i tanti, edificio quattrocentesco in via del Governo Vecchio, sede del Governatorato nell’’800, è da 30 anni in stato di abbandono.
La facciata degradata sgretolata dal tempo e dalle intemperie, degli affreschi di fine ‘400 rimane ben poco: il resto, probabilmente mancando i fondi per il restauro, è stato semplicemente coperto da intonaco.
Nel 2003, la Legge finanziaria regionale del Lazio all’art. 18 prevedeva per quell’immobile uno stanziamento di 5 milioni di euro spalmati sugli anni 2003 e 2004 in attuazione di un documento di programmazione economico-finanziaria regionale e di un protocollo d’intesa sottoscritto dalla Regione e dal Ministero per i beni e le attività culturali.
La Regione Lazio avrebbe dovuto concorrere alle opere di restauro e recupero artistico ed architettonico di Palazzo Nardini, di proprietà delle Asl del Lazio in comunione di beni, che avrebbe dovuto ospitare la Biblioteca di archeologia e storia dell’arte di Roma, nonché essere destinato ad uso istituzionale della Regione stessa.
Dal 2005 al 2009, dieci milioni di euro per consolidamento e recupero; oggi il cantiere, lasciato a metà, testimonia spreco di risorse, assenza di progettualità e disinteresse delle amministrazioni al recupero di spazi che potrebbero essere vitali per una città in affanno su servizi, asili nido, diritto all’abitare.
Ieri Palazzo Nardini è stato riaperto al pubblico per qualche ora dalle realtà di movimento promotrici della campagna deLiberiamo Roma che con un’occupazione simbolica hanno voluto lanciare un percorso di delibere di iniziative popolare per ridisegnare dal basso la città e proporre alle istituzioni un’alternativa al piano di dismissione del patrimonio pubblico, del welfare e dei servizi pubblici con i quali si intende dare risposta al deficit di bilancio del Comune.
Richiuse le porte di Palazzo Nardini, la rete di realtà sociali si è mossa in corteo verso il Campidoglio dove è avvenuta la consegna delle delibere al segretariato comunale. Tra pochi giorni partirà in tutta Roma la raccolta delle 5.000 firme necessarie affinché le delibere di iniziativa popolare possano essere oggetto di discussione da parte del Consiglio:
– Ripubblicizzazione di ACEA ATO2;
– uso sociale del patrimonio pubblico e privato in disuso in opposizione alle dismissioni;
– esclusione dal Patto di Stabilità di tutti gli investimenti riguardanti servizi pubblici e welfare locale nonché azione del Consiglio Comunale di Roma Capitale affinché Cassa Depositi e Prestiti modifichi il proprio status giuridico e la propria funzione sociale ritornando a sostenere a tassi agevolati gli investimenti degli enti locali, compito originario dell’istituto che raccoglie il risparmio postale e che, nel corso degli ultimi anni, è stato invece “inquinato” dall’ingresso delle fondazioni bancarie e dal finanziamento a imprese private.
– infine, la quarta delibera riguarda la scuola pubblica e chiede la garanzia in strutture pubbliche del diritto allo studio, a partire dalla scuola dell’infanzia e lo stop dei finanziamenti alle scuole private, riservando le risorse a quelle comunali.
Segnale della reattività della cittadinanza e dei movimenti, il lancio della campagna deLiberiamo Roma avviene mentre in Campidoglio si discute il “piano triennale per la riduzione del disavanzo e per il riequilibrio strutturale di bilancio” a cui è legata la concessione dei fondi necessari a salvare Roma dal default, attuazione del decreto Salva Roma, approvato a fine marzo e strutturato come una morsa che impedisce al Comune di derogare alle politiche di austerità.
Il Piano dovrà essere approvato entro quattro mesi dall’entrata in vigore del provvedimento e Roma Capitale dovrà sottoporlo all’approvazione di una cabina di regia formata da ministero dell’Economia, dell’Interno e Presidenza del Consiglio. Il problema è che “riequilibrio del bilancio” per il Salva Roma significa soprattutto vendita del patrimonio immobiliare pubblico e politiche di privatizzazione dei servizi: sono queste le strade previste per fare cassa.
Il tutto, sottoposto al controllo di un governo che più volte ha dimostrato la propria inclinazione neoliberista, è in sostanza uno strumento in più nelle mani di Renzi al fine di “razionalizzare” economicamente la gestione dell’ente locale e delegare al privato e alle sue esigenze di profitto ciò che finora era dovere del pubblico assicurare.
Oltre al bilancio economico, esiste il bilancio sociale delle politiche di austerity e il messaggio che la campagna deLiberiamo Roma sembra lanciare sin d’ora è che la stabilità economica e le esigenze di rientro del debito non possano mettere a repentaglio quelle che sono le funzioni essenziali degli Enti comunali: la garanzia di servizi efficienti e pubblici, non fondati sulle regole del profitto perché legati a diritti fondamentali dei cittadini.
Invece che continuare a immettere denaro una tantum nelle casse del Comune attraverso la vendita del patrimonio immobiliare, la campagna ne propone l’utilizzo per fini sociali e culturali, per l’offerta di spazi alla città, per la soluzione dell’emergenza abitativa, ciò che può generare ricchezza redistribuita e permanente.
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Articolo di Mauro Favale pubblicato su “La Repubblica.it” del 23 aprile 2014
Mauro Favale
Sotto la volta affrescata, a due passi dall’enorme cortile con l’erba alta un metro, davanti a muri scrostati e a un porticato che ripara dalla pioggia sottile, cinque ragazzi sognano: «Ci potremmo fare delle scuole e uno studentato», dice un giovane con un filo di barba.
«Una “Casa degli artisti”», interviene una donna un po’ più grande.
«E anche un centro antiviolenza — insiste un’altra — sarebbe un modo per mantenere intatta la memoria di questo luogo».
Nessuno di loro era mai stato qui, in via del Governo Vecchio 39, in questo palazzo del ‘400 che in oltre 500 anni è stato di tutto: ospizio, convento ma soprattutto sede del Governatorato di Roma e poi pretura penale del Regno d’Italia e pretura civile della Repubblica fino al 1964.
Tutti e cinque, come i tanti che ieri mattina lo hanno “liberato” per qualche ora, erano anche troppo giovani nel 1984, quando venne sgomberato definitivamente.
Allora, a occupare parte dei 28 mila metri cubi dell’edificio (valore stimato, quattro anni fa, in 60 milioni di euro), c’erano i movimenti femministi, sigle, gruppi, associazioni che fecero di questo indirizzo, tra il 1976 e il 1984, semplicemente “La casa delle donne”.
Da trent’anni era rimasto chiuso, abbandonato all’incuria, saltuariamente visitato da tecnici e architetti per valutarne stabilità e tentativi di ristrutturazione.
Poi, ogni volta, quando si ritornava su via del Governo Vecchio, ci si chiudeva alle spalle l’enorme portone di legno con una doppia catena e un grosso lucchetto.
Così è successo anche lo scorso 15 gennaio, quando i funzionari dell’assessorato al Patrimonio della Regione Lazio (l’ente che dal 2002 è proprietario dell’edificio) hanno effettuato un nuovo sopralluogo, il primo da quando Nicola Zingaretti è stato eletto governatore.
Una “visita” nata dopo le numerose segnalazioni arrivate da Vittorio Emiliani del Comitato per la Bellezza e dagli inquilini delle abitazioni di via del Parione 37 che vivono a ridosso del Palazzo. Adesso, ancora una volta, è in atto una valutazione delle stime dei lavori per mettere in atto le opere «di pronto intervento», tra consolidamento dei muri e lavori sulla facciata.
Per il resto, del protocollo firmato 10 anni fa da Regione, Ministero dei Beni culturali e Soprintendenza, si sono perse le tracce.
Lì, in quei locali dovrebbe essere allestita la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte. La Regione è d’accordo, ma servono soldi.
Oltre 4 milioni sono stati già stanziati per una ristrutturazione che si è fermata ormai 8 anni fa.
Si pensa a un’operazione di cessione di Palazzo Nardini da parte della Regione all’Agenzia del Demanio che in cambio dovrebbe passare altri immobili di pari valore.
Per ora c’è solo un protocollo firmato lo scorso novembre che riguarda complessivamente il patrimonio della Regione da valorizzare o alienare.
Adesso, l’occupazione di ieri, seppure brevissima, riaccende l’attenzione su un edificio che fa parte della storia di una “Roma ribelle” (dal nome di una guida pubblicata sei mesi fa da Voland) ormai quasi dimenticata.
A ricordarla ci sono ancora le scritte sui muri delle scale che portavano nelle stanze della Casa delle donne.
Murales sbiaditi coi nomi dei collettivi femministi o, più semplicemente, con gli slogan di allora («Io sono mia», su tutti). All’esterno, sul basamento di una colonna, si legge ancora «I giochi di potere non sono solo maschili: sono anche noiosi»: perfetta sintesi dello spirito che animava questi luoghi.
Le più grandi ricordano le assemblee dopo il ferimento del collettivo Casalinghe da parte di un commando dei Nar che fece irruzione durante la trasmissione che tenevano su Radio Città Futura, nel gennaio del 1979, o quella dopo la morte di Giorgiana Masi, il 12 maggio dello stesso anno.
Per un giorno, dopo più di trent’anni, il cortile è tornato ad animarsi, a discutere di politica, a lanciare una mobilitazione, a ricordare cos’erano questi saloni, a raccontare a turisti stranieri la storia di un palazzo che, come tanti altri più o meno nascosti in città, aspetta solo di tornare a vivere.
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Il 25 aprile 2014, in occasione dell’apertura al pubblico in via straordinaria e sperimentale del castello di Santa Severa, il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha rilasciato la seguente dichiarazione a proposito di Palazzo Nardini: “Palazzo Nardini di Roma è un’altra delle brutte storie che abbiamo ereditato. Va ora tutelato da tre rischi, il degrado, la speculazione, l’occupazione“.
Nicola Zingaretti
Ed ha poi aggiunto: “Si tratta di tre rischi che vieterebbero a Palazzo Nardini la funzione pubblica che è invece la priorità assoluta. Con il precedente governo – ha ricordato ancora il presidente della Regione Lazio – avevamo trovato un’ipotesi di ‘vocazione museale’ e la prossima settimana parlero’ con il ministro Franceschini per vedere se questa indicazione è confermata“.
“Ne parleremo, anche con le tante associazioni che hanno manifestato ed io mi auguro che entro venti giorni potremo mettere la parola fine sulla destinazione di un palazzo che da otto anni ha aperto un rapporto con le sovrintendenze per il restauro e deve essere tutelato, compreso il meraviglioso chiostro, lo ripeto, da degrado, speculazione e occupazioni. Ad oggi, comunque, siamo a buon punto“.
Ha quindi concluso: “Entro venti giorni potremo mettere la parola fine sulla destinazione di un palazzo che da otto anni ha aperto un rapporto con le sovrintendenze per il restauro e deve essere tutelato, compreso il meraviglioso chiostro, lo ripeto, da degrado, speculazione e occupazioni“.