Articolo di Giorgio Nebbia pubblicato con questo titolo il 1 febbraio 2015 su “Eddyburg”.
Giorgio Nebbia
Abbiamo ancora negli occhi gli orrori che ci sono stati ricordati in occasione del settantesimo anniversario della liberazione, da parte dell’esercito sovietico, del primo dei campi di concentramenti e sterminio nazisti, quello di Auschwitz.
In tale campo è stato prigioniero anche Primo Levi, il grande scrittore torinese, che era anche un chimico e che ha lasciato pagine indimenticabili sulla terribile esperienza.
Un orrore nel quale sono state coinvolte, oltre alle SS, la milizia che aveva come simbolo il teschio della morte, ma anche molte persone apparentemente inappuntabili.
I vari processi contro i responsabili dei crimini nazisti, svolti negli anni dal 1946 al 1948, hanno messo in evidenza che molte imprese commerciali e industriali hanno fatto soldi, e tanti soldi, fabbricando le strutture e gli apparati dei campi di sterminio e sfruttando le persone, donne e uomini, internate nei campi come mano d’opera gratuita in lavori durissimi, con poco cibo, al freddo.
Il nazismo aveva costruito una struttura industriale potentissima rivolta alla preparazione e poi allo svolgimento di una guerra che sarebbe durata cinque anni in tutta Europa, in Africa e negli oceani del mondo.
Gli uomini validi erano al fronte e l’apparato industriale doveva cercare operai portati via dai parsi occupati.
Quando i tragici convogli ferroviari di prigionieri, ebrei, rom, partigiani, arrivavano nei campi di concentramento veniva fatta una selezione delle persone che avrebbero potuto lavorare allo sforzo economico.
Questa mano d’opera, praticamente schiava, veniva ceduta alle industrie e agli agricoltori; esisteva uno speciale ufficio delle SS che si occupava della ”vendita” di questi lavoratori; i datori di lavoro pagavano un contributo alle SS per ogni schiavo.
Oswald Pohl, il capo di questo speciale ufficio economico e amministrativo delle SS (WVHA), fu processato e giustiziato nel 1951.
Ci sono dettagliate descrizioni di questo vergognoso commercio di lavoratori impiegati nella costruzione di strade e gallerie, nelle cave, nei campi e nelle fabbriche.
Un libro di William Manchester, I cannoni dei Krupp (1961), basato sugli atti del processo svoltosi a Norimberga contro questa potente famiglia, mostra come i proprietari della grande industria dell’acciaio, la potente famiglia Krupp (si proprio quella il cui nome è stato tramandato fino alla società che ha potuto acquistare le acciaierie di Terni e di Torino), fossero in grado di far funzionare a pieno ritmo i loro stabilimenti per la produzione di acciaio e di armamenti con il sangue e il dolore di migliaia di donne e uomini “acquistati” dai custodi dei campi di concentramento e sfruttati fino alla loro morte per sfinimento o malattie.
La I.G. Farben, un potente gruppo di industrie chimiche, aveva installato, nelle vicinanze del campo di concentramento di Auschwitz, per poter utilizzare gli internati del campo, un grande stabilimento per la produzione di gomma sintetica, partendo da calcare e carbone, e una fabbrica di benzina sintetica.
Mano d’opera schiava veniva usata nella gallerie scavate nei giacimenti sotterranei di sale in cui erano costruiti e sperimentati i razzi V2.
Il commovente film Schindler’s list racconta la storia vera dell’imprenditore Oskar Schindler, fabbricante di munizioni per l’esercito tedesco, che corruppe funzionari delle SS per ottenere deportati ebrei da far lavorare nel suo stabilimento al fine di sottrarli alla morte.
Ma le imprese facevano affari anche con i campi di concentramento e si contendevano gli appalti per la costruzione delle baracche, delle camere a gas e del cianuro con cui venivano assassinati i deportati che “non servivano a niente”.
Sono sopravvissuti i verbali dei sopralluoghi di tecnici e operai che andavano nei campi per la manutenzione dei forni crematori.
In questi giorni “della memoria” non ho visto proiettato un altro bel film, Vincitori e vinti, del 1961: un giudice (il bravissimo Spencer Tracy) di uno dei processi di Norimberga, quello contro i giudici nazisti, si sforza di capire come il popolo tedesco, il popolo che aveva generato tanti giganti della filosofia, della letteratura, della scienza, della musica, potesse aver assistito in silenzio agli orrori che si svolgevano tutto intorno.
La risposta generale è: «non sapevamo nulla» e la vedova (Marlene Dietrich) di un alto ufficiale nazista, cerca di spiegare (il film è ambientato nel 1948) che il popolo tedesco dopo la fine della guerra aveva il diritto, anzi il dovere, di dimenticare e di ricominciare a vivere.
Si era alla vigilia (giugno 1948) del blocco sovietico della città di Berlino e il mondo sembrava alle soglie di una terza guerra mondiale, questa volta fra americani e sovietici, ex-alleati nella sconfitta del nazismo e gli americani avrebbero “avuto bisogno” dei tedeschi.
Effettivamente, all’infuori dei pochi condannati a morte, tutti gli altri condannati per crimini nei vari processi, sono tornati presto in libertà e hanno ricoperto cariche importanti nell’economia mondiale.
La politica militare ha delle sue strane regole (im)morali; americani e russi, vincitori della Germania nazista non hanno esitato a reclutare i migliori ingegneri, tecnici e scienziati del paese vinto per impiegarli nei loro sforzi industriali in vista di un possibile scontro fra gli ex-alleati.
Von Braun, il progettista delle V2 tedesche che avevano distrutto interi quartieri di Londra nella nemica Inghilterra, negli Stati Uniti progettò i razzi per l’aeronautica militare diventando apprezzato consulente delle industrie americane.
Anche questo da ricordare.
L’articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno