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Home Archivi

Ulivi, viti e mais: le colture distrutte dai cinghiali. “In Italia sono oltre 2 milioni: ecco perché sono così tanti”

14/08/2022
in Archivi, Governo del territorio, Natura, News, Piani territoriali, RASSEGNA STAMPA
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Nella foto: i campi di Matteo Foi distrutti dai cinghiali

Ce n’era uno che nuotava in Darsena, a Milano.

Per le operazioni di recupero è stato necessario mobilitare quattro squadre dei vigili del fuoco, personale alpino, sommozzatori.

Nel Cilento, invece, una madre con due cuccioli si aggirava fra gli ombrelloni della spiaggia di Montecorice.

A La Spezia, una famiglia intera ha percorso il parco della Maggiolina.

Sulle strade provocano incidenti fra gli automobilisti e motociclisti.

Per non parlare dei campi messi a coltura: distrutti.

I cinghiali sono ovunque, ogni anno di più.

Secondo un’analisi svolta da Coldiretti il totale di questi animali in Italia è salito a 2,3 milioni.

In generale, secondo Stefano Masini – responsabile ambiente per l’associazione – il problema è da ricercare in molti fattori: lo spopolamento di alcune aree territoriali, i fenomeni climatici recenti che hanno indotto un aumento delle temperature e un conseguente riassestamento delle abitudini dell’animale (si porta in luoghi nuovi in cerca di cibo, raddoppia la procreazione), e il mancato controllo numerico.

“Per quanto concerne le città – soprattutto in alcune aree – c’è stata quasi una forma di domesticazione, con i cinghiali che tornano dove sanno di trovare rifiuti”.

Ci sono infine i costi: “Gli agricoltori sono quasi sempre da soli nel sostenere i danni provocati dai branchi.

E spesso serve poco per determinarli: basta il calpestio di questi animali sui cereali”.

Colture e danni – Patiscono soprattutto gli agricoltori, sui quali si è abbattuta anche questa tegola oltre a siccità e conseguenti problemi di irrigazione: “Cominciano i caprioli.

Mangiano le foglioline nuove degli olivi, le gemme delle vigne da cui poi si genera il tralcio, che a sua volta produce il frutto”, spiega Matteo Mugelli, titolare di un’azienda agricola a San Casciano, in Toscana.

“Poi arrivano i cinghiali: mangiano i frutti rimasti.

Se non ci arrivano, si mettono su due zampe e si appoggiano ai fili sui quali la vite cresce.

Considerando che un animale pesa anche 80 chili, li butta giù.

E spesso travolge anche i pali”.

Si tratta perciò, spiega Mugelli, di un danno doppio: di struttura e di produzione.

Le recinzioni, poi, costano: nel suo caso anche 14mila euro.

“E introdurle, insieme a reti, fili e barriere, spesso è un’operazione innaturale che provoca ulteriore stress alle coltivazioni”.

Non va meglio ad Abbiategrasso, in provincia di Milano, dove Matteo Foi ha un’attività di ovini da latte.

Nella sua azienda ci sono soprattutto i cosiddetti prati stabili (senza colture) e il mais.

Quest’ultimo, molto cercato dai cinghiali, ha vissuto un’annata in decrescita: la mancanza di pioggia ha ridotto di un terzo le produzioni agricole con punte del 45%.

“Colpiscono in particolare la fase di semina, e la successiva maturazione”, spiega Foi.

Da lì, gli animali ricavano nutrimento e si rafforzano: “E infatti le cucciolate rispetto agli anni scorsi sono più numerose.

Spesso ogni femmina ne ha due nel corso di un unico anno”.

Per quanto riguarda il terreno messo a prato, prosegue: “lo ribaltano. Quando se ne vanno sembra sia stato attraversato da un fuori strada”.

Nel suo caso, inoltre, è stata danneggiata anche la rete idrica.

“Il problema ha iniziato a verificarsi 25 anni fa, ma in modo molto più contenuto. Ora i cinghiali stanno progressivamente allargando la propria area di espansione, raggiungendo anche centri abitati e carreggiate”.

E infatti, negli ultimi dieci anni il numero di incidenti gravi con morti e feriti causati da animali ha subito un balzo (+81%) sulle strade provinciali, secondo la stima Coldiretti su dati Aci Istat.

Nell’ultimo anno si contano 13 vittime e 261 feriti gravi.

Peste suina – I cinghiali possono anche trasmettere la peste suina africana, spesso letale per i maiali da allevamento.

Alle varie preoccupazioni, perciò, si aggiunge anche quella di carattere sanitario.

Sono stati individuati molti casi in Lazio, Piemonte e Liguria.

Fra misure adottate per contenere i casi di infezione ci sono anche gli abbattimenti cautelativi di maiali, anche non infetti.

Le ripercussioni si sentono perciò sul settore, che con i 31mila allevamenti sul territorio nazionale genera un fatturato di 20 miliardi di euro l’anno e garantisce occupazione per circa 100mila persone.

Alternative alla caccia – Fra i fattori responsabili del fenomeno c’è il progressivo allontanamento dalla caccia.

Dovuto, spiega Mugelli, all’aumento dei costi di quest’ultima, alla regolamentazione cui è soggetta e al cambiamento di sensibilità sul tema.

“La Regione Toscana aveva concesso ad alcuni agricoltori di cacciare gli animali, in caso di esigenza.

Ma io, per esempio, non lo farei mai”.

Al contrario, usava un repellente a base di grasso di pecora, il trico: il suo prezzo però è molto alto e si aggira intorno ai 165 euro per cinque litri.

Mugelli sta perciò tentando di mettere a punto un nuovo prodotto, a base di peperoncino, con ingredienti naturali: “In modo tale da indurli a tornare a cibarsi nei boschi, lasciando in pace le nostre coltivazioni e il nostro lavoro”.

(Articolo di Elisa Cornegliani, pubblicato con questo titolo il 14 agosto 2022 sul sito online “Ambiente & Veleni” del quotidiano “Il Fatto Quotidiano”)

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