Transizione green, conservazione dell’ambiente, economia più innovativa, addio.
Evidentemente negli Usa il culto di Trump è alle stelle e la sorpresa nella corsa elettorale più feroce è stato lo spostamento di pezzi di elettorato dal campo progressista a quello conservatore.
Il leader repubblicano ha conquistato gli Stati cruciali fino a ieri considerati in bilico, quelli del Sud e del Midwest.
Anche la mitologica Pennsylvania.
Al di là di ogni ragionamento politico e geopolitico, le conseguenze del voto rischiano di avere un peso non simbolico ma molto concreto e reale in un settore cruciale per tutti: la lotta per abbassare la febbre del pianeta e per impegnare il mondo nell’adattamento.
Trump ha vinto in nome del petrolio per la seconda volta dopo aver battuto Hillary Clinton nel 2016, e oggi come allora si apriranno scenari ambientali disastrosi, con l’annunciato ritorno in seconda visione della proiezione di un film da incubo.
Il tycoon tutt’altro che fritto come lo davano fino a ieri, in nome e per conto dell’America reale di oggi renderà ancora più in salita le scelte per frenare la drammatica corsa delle temperature killer.
Quando Trump, nel 2022, fu sconfitto dallo sfidante democratico Biden, il vecchio Joe rovesciò le impostazioni scettiche, negazioniste e le decisioni di Donald lanciando la Global climate ambition initiative, finanziando la Net-zero transition e l’Adattamento ai cambiamenti climatici con investimenti massicci, firmando l’executive order sui rischi finanziari climate-related per tutte le Agenzie federali, e favorendo così anche l’European green deal messo al centro della strategia per la trasformazione economica e sociale del nostro continente.
Mentre anche il presidente cinese Xi Jinping dichiarava la necessità per l’umanità dovrebbe di “lanciare una rivoluzione verde”, due paroline magiche sulle quali persino Mario Draghi, distante anni luce da ogni fascinazione ecologista ma molto in sintonia con l’economia reale e i suoi asset industriali e tecnologici, ottenne la fiducia del suo governo dal nostro Parlamento.
Oggi si rimescolano ovviamente anche le carte del prossimo summit globale della Cop29, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici 2024 che si terrà dall’11 al 22 novembre a Baku, in Azerbaijan, per cercare la via della concretezza sugli impegni globali di riduzione dei gas serra e sulla transizione green, solennemente sottoscritti ma fermi alle parole dell’Accordo di Parigi del 2015.
Già, quell’accelerazione nella Cop15 che allora fu impressa soprattutto dall’amministrazione Obama e da tradurre in investimenti su piani di mitigazione e di adattamento nei 197 Paesi firmatari, produsse in casa Usa più severi limiti per le emissioni di CO2 in ogni singolo Stato.
Obama obbligò le centrali elettriche a rispettarli e ad entrare in fase di transizione energetica, con più eolico e solare.
Il suo Clean power plan con la strategia energetica nazionale venne però stoppato nel 2016 dalla Corte Suprema, dopo la causa avviata nel dal West Virginia con altri 18 Stati repubblicani sostenuti delle grandi compagnie produttrici di carbone in nome della libertà di impresa.
Ma con Biden ripartì l’ambizioso piano BBB, il Build back better act, il mega pacchetto dal valore compreso tra 2.000 e 3.500 miliardi di dollari con risposte alla crisi climatica, economica e sociale, con il ruolo centrale dell’Epa, l’Environmental protection agency, la mitica Agenzia statunitense impegnata nel controllo e nella riduzione delle emissioni dei gas serra generate dalle centrali più inquinanti a carbone.
Oggi gli Usa rischiano il ritorno all’incoscienza precedente.
Tanto più che la grande questione climatica che ci vede sull’orlo del precipizio non vede l’umanità decisa a reagire ora e subito, trasformando i piani in posti di lavoro e economie.
Siamo surclassati da altre emergenze come le terribili guerre senza fine.
E il ritorno di Trump è la cartina di tornasole di un ritorno al passato.
Che ne sarà dell’agenda dell’amministrazione Biden, di quella road map per obiettivi di riduzione delle emissioni negli Stati Uniti secondo produttore mondiale di gas serra dopo la Cina?
E degli obiettivi zero emissioni entro il 2050?
E di ogni piano di riduzione in ogni settore?
Un nuovo piano clima di Trump sembra oggi improbabile.
Ad oggi, con queste premesse, la Conferenza dell’Onu sul clima che vede gli sherpa del mondo impegnati a limare dossier per i futuri accordi, si preannuncia alquanto demoralizzante.
La diplomazia climatica che doveva riprendere il filo degli impegni presi nello storico Accordo di Parigi nel taglio delle emissioni di CO2, e nel summit a Dubai nel novembre scorso, prenderà ancora la strada dell’empasse.
Nel frattempo, le catastrofi prodotte dalla crisi climatica costano un botto, siccità e inondazioni sono sempre più estreme e imprevedibili e aumentano danni, fame e profughi climatici, e anche la nostra Penisola non sta troppo bene.
Il mondo brucia un record via l’altro con temperature medie globali a fine secolo ormai previste intorno ai 3 gradi in più rispetto all’era preindustriale, il doppio dell’ormai più che saltato limite di 1,5 gradi fissato a Parigi.
E se ci sarà un cambio passo, con Trump rischia di essere quello dei gamberi.
All’indietro.
A meno di un recupero di coscienza in retromarcia da parte del 47esimo presidente Usa, al momento altamente improbabile.
(Articolo di Erasmo D’Angelis, pubblicato con questo titolo il 6 novembre 2024 sul sito online “greenreport.it”)