Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
«I problemi non possono essere risolti dallo stesso livello di conoscenza che li ha creati.»
Albert Einstein, scienziato e Premio Nobel per la Fisica.
Resteremo in superficie anche questa volta, come lo siamo sempre stati in occasione delle altre tragedie indotte dal “malgoverno del territorio”.
Sono sconcertato e amareggiato dallo stupore tardivo di autorevoli commentatori dinanzi al dato sull’impermeabilizzazione del suolo in Emilia Romagna pari al 8,9%, ben oltre, dicono costoro, la media nazionale del 7,1%.
A costoro vorrei ricordare che in Lombardia il consumo di suolo è del 12,12% e in Veneto il consumo di suolo è del 11,90% (3 punti percentuali in più rispetto all’Emilia Romagna), percentuali preoccupanti rispetto alla media nazionale del 7,13% e alla media UE del 4,2% (Veneto e Lombardia riescono quasi a triplicare il consumo di suolo rispetto alla media europea).
Qualcuno da lassù ci aiuti a negare la concessione dell’autonomia differenziata a questi predatori che, in nome della competenza concorrente (art.117 Costituzione) del “(mal)governo del territorio”, fanno già tanti danni, forieri di lutti e di una spesa pubblica emergenziale in continua crescita.
Purtroppo non basta nemmeno invocare leggi contro il consumo di suolo, che, sempre in nome della competenza concorrente del “(mal)governo del territorio”, regioni padane come Emilia-Romagna e Veneto hanno emanato.
In Emilia Romagna la legge del 2017 ha persino aumentato il consumo di suolo.
Il Veneto, in vigenza della legge regionale del 2017 per il “contenimento del consumo di suolo”, grazie a 16 deroghe è riuscito a piazzarsi al primo posto a livello nazionale per il suolo consumato nel triennio 2017-2019 e al secondo posto, dietro la Lombardia (compagna delle merende a base di cemento) negli anni 2020 e 2021.
Aggravante per chi ha “(mal)governato” il territorio in Emilia Romagna è il consumo di suolo avvenuto nel 2021 pari 78,6 ettari in aree a “pericolosità idraulica elevata” e 501,9 ettari in aree a “pericolosità idraulica media” precedendo, in questa drammatica classifica, il solito Veneto e nonostante il Regio Decreto 523/1904 vieti di costruire in alveo, in fascia di rispetto di corsi d’acqua e in golena.
In un paese civile, dove l’etica governa il cuore e la mente degli amministratori, sarebbe normale, da parte di chi governa e che non ha dedicato attenzione e risorse alla prevenzione, presentare le dimissioni, ma niente di tutto questo sta avvenendo, anzi: chi è corresponsabile della cementificazione in aree a rischio idraulico si candida a guidare la ricostruzione.
E non basta neanche invocare una “generica” legge per un “generico contenimento del consumo di suolo”: ci vuole “subito” una legge per lo stop immediato, senza se, senza ma, senza deroghe e fatta, come suggerisce il geologo Mario Tozzi, di un solo articolo: “sul territorio nazionale viene fatto divieto di porre un solo nuovo mattone o un solo kg di cemento o un solo kg di asfalto”.
Bisogna “lottare” per difendere la risorsa delle risorse, quale è la terra, raccogliendo nelle regioni dove ci sono leggi false (fake laws) le firme per un “referendum abrogativo”.
In questo momento della storia geologico-climatica si devono fermare nuove infrastrutture, nuove cementificazioni, nuove impermeabilizzazioni del suolo, ricomponendo in una “visione olistica” tutto il percorso dell’acqua piovana dalla montagna al mare, pensando a quello che si può fare in un lavoro di rinaturalizzazione e, soprattutto, a quello che non si deve fare come, ad esempio, utilizzare il cemento per la costruzione di muraglioni altri fino a 8 metri per una lunghezza di 14 km e l’escavazione di 550 ettari (5 km. quadrati) per la realizzazione di 4 casse di espansione nelle grave di Ciano: un’area dove sono presenti 14 tipi di habitat, 91 famiglie botaniche, 488 specie di piante (20% endemiche), 64 specie di uccelli e 20 specie tra anfibi e rettili.
In un sito, tra l’altro, che è una “piana di esondazione naturale” e che già oggi dà quindi il suo contributo in caso di piene aggressive.
L’unica infrastruttura di cui abbiamo bisogno è la “manutenzione”, il “monitoraggio”, il “controllo” continuo del territorio e dei suoi corsi d’acqua, la “rimozione” delle ramaglie, rami e tronchi dall’alveo dei fiumi, dei torrenti, di tutti i corsi d’acqua, dai più insignificanti ai più grandi, fino a giungere ai più bistrattati fossi, con attenzione alle pendenze per creare delle “casse di espansione naturali” su cui far defluire momentaneamente le piene aggressive indennizzando gli agricoltori.
A volte si potranno anche spostare gli argini, ma mantenendo la funzione mitigatrice della velocità della corrente da parte della “vegetazione riparia”.
A cosa devono servire i soldi del PNRR?
Per la “ripresa della cementificazione” o la “resilienza” degli ecosistemi fluviali?
L’Ispra ha lanciato l’allarme chiedendo al governo un capitolo di spesa dedicato al completamento della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50.000, che, a conclusione dei fogli avviati nell’ultimo triennio, arriverebbe attualmente solo al 55% della copertura del territorio nazionale.
In 20 anni il ministero dell’Ambiente ha stanziato quasi 7 miliardi per 6mila progetti di contrasto al dissesto idrogeologico, ma sarebbero necessari molti fondi in più per mettere in sicurezza il territorio: le richieste superano infatti i 26 miliardi di euro.
Come stonano quel miliardo e 600 milioni destinati a infrastrutture sportive e stradali per le Olimpiadi Invernali del 2026 con il loro costo in termini di “consumo di suolo” e di “taglio di alberi”: un “binomio antiecologico” che paradossalmente finirà per produrre nuove frane a tempo, nuovi smottamenti a tempo, nuove alluvioni a tempo.
Non possiamo andare avanti a raccolte fondi per gli alluvionati e a minuti di silenzio in ricordo delle vittime.
E’ ora di agire.
La tutela e la conservazione del suolo non cementificato con i numerosi servizi ecosistemici, compreso quello relativo al ciclo dell’acqua nel tempo dei cambiamenti climatici, deve essere messa in cima all’elenco delle priorità del movimento ambientalista e delle diverse associazioni e comitati ambientalisti.
In fondo l’associazionismo ambientalista quando lotta contro le diverse forme di “sfruttamento del suolo” è un po’ come scrivesse le parole della biodiversità e battersi contemporaneamente per “fermare il consumo di suolo” è un po’ come imparare le lettere dell’alfabeto per poter scrivere quelle parole.
L’ambientalismo ha bisogno di questa base culturale ed ecologica, fondata sulla terra e le sue funzioni, sia per superare l’ipocrisia del “partito unico del cemento”, sia per ridefinire un’economia ed un modello di sviluppo fondato nel “restauro architettonico” del costruito e in disuso (in Italia ci sono 10 milioni di case vuote, Istat 2019), nel “restauro ecologico” degli habitat, nella “manutenzione” di grandi e piccole infrastrutture e nel loro “adattamento funzionale” senza farne di nuove, nella “difesa idraulico-climatica” dei così d’acqua, nella “circolarità” e “riuso” di beni, nelle “energie rinnovabili” utilizzando le superfici cementificate, i tetti di capannoni, centri commerciali, abitazioni, i parcheggi, gli argini lungo le autostrade.
“L’acqua buona” di un fiume è quella che trova dei percorsi naturali su cui defluire anche in caso di piene, quella che si infiltra nel terreno permeabile per alimentare le falde, il vero e unico invaso da alimentare.
“L’acqua buona” è quella che nel suo viaggio dalla montagna al mare è accompagnata dalla “vegetazione riparia” che assorbe e rallenta la sua eventuale corsa impetuosa.
“L’acqua cattiva” è quella che scorre sul cemento, sul terreno inaridito dai periodi di siccità, quella che evapora dai terreni impermeabilizzati o dai bacini artificiali.
L’acqua è un “bene comune” da tutelare, dalle sorgenti al mare: è una “risorsa naturale” indispensabile alla vita sulla terra e non può essere oggetto di manomissioni di tipo industriale neanche quando si manifesta con violenza per effetto del nostro egoistico antropocentrismo.
Schiavon Dante