Il 26 febbraio 2014 si è svolto un seminario organizzato intitolato “Per una teoria dei beni comuni” dal Comitato Beni Comuni di Monza e Brianza, a cui ha partecipato Paolo Maddalena che nel suo intervento ha anticipato i contenuti di un suo volumetto tascabile che dai primi di marzo è uscito dal titolo “TERRITORIO, BENE COMUNE DEGLI ITALIANI. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico”, casa editrice Donzelli: i suoi contenuti sono stati fatti oggetto ieri di un articolo pubblicato su questo stesso sito.
Sul quotidiano “La Repubblica” del 2 marzo 2014 (pag. 48) è stato pubblicato un articolo di Francesco Erbani dal titolo “Quel bene di tutti chiamato paesaggio” che fa la seguente recensione del libro.
Francesco Erbani
<<La partita del territorio italiano, del paesaggio e della loro tutela, si gioca tutta intorno ad un’espressione latina, ius aedificandi.
Secondo Paolo Maddalena, professore di diritto romano, poi giudice della Corte dei Conti e, per un decennio, della Corte Costituzionale, se si chiarisse per bene, senza ambiguità, che una cosa è essere proprietari di un suolo altra cosa è aver diritto a farci quel che si vuole, forse per territorio e paesaggio italiano si può immaginare un futuro più sereno.
Ma che cosa c’entra lo ius aedificandi?
Centra, spiega Maddalena in questo saggio di lettura agile (con introduzione di Salvatore Settis), nonostante la mole di sapienza giuridica che vi è riversata, perché un presunto diritto a costruire si ritiene sia connaturato al diritto di proprietà.
È una convinzione molto diffusa in Italia: ne è prova il successo di uno degli slogan simbolicamente più efficaci del berlusconismo, “padroni in casa propria”, che ha fatto proseliti sia fra i grandi che fra i piccoli possessori di aree, a dimostrazione che esiste nel nostro paese un nutrito, multiforme “blocco edilizio” tenuto insieme da una smodata intolleranza verso le regole.
Ma uno ius aedificandi così inteso, baluardo di un oltranzismo privatistico, è uno sgorbio giuridico, insiste Maddalena, senza riscontri nelle fonti del diritto romano, anzi ampiamente smentito da questo, e soprattutto in patente contrasto con la nostra Costituzione.
Ciononostante sul diritto a costruire vige una specie di consuetudine, avallata da alcune norme del codice civile e da qualche sentenza della Corte Costituzionale (risalente a prima che Maddalena vi facesse parte) e poi da un sentire diffuso che autorizza sia abusi edilizi sia piani casa.
E invece possedere un suolo non è come possedere un tavolo.
Non lo si può trasformare o manipolare a piacimento.
L’edificazione, scrive Maddalena “produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma anche sui beni che sono in proprietà collettiva di tutti, come il paesaggio che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà collettiva del popolo, a titolo di sovranità”.
Stendere un velo di cemento anche solo su duecento metri quadrati di suolo sottrae irreversibilmente a questo alcune funzioni che sono di interesse della collettività.
Quella porzione di suolo sarà impermeabilizzata, con un acquazzone la pioggia vi scivolerà e non sarà assorbita ricaricando le falde.
Il suolo non potrà più essere coltivato.
Non immagazzinerà più carbonio.
Se sopra il velo si innalzerà un edificio, questo altererà la prospettiva esistente, attirerà più persone, produrrà più scarichi.
Se invece che uno, gli edifici sono tanti, tutti questi effetti si moltiplicheranno.
Non può essere solo il proprietario a decidere che cosa fare del suo suolo.
La proprietà privata non dà diritti illimitati.
Diritti che, per fare un esempio, un costruttore ritiene di poter esercitare quando va a contrattare la trasformazione di un’area con un’autorità pubblica troppo spesso soggiogata politicamente.
Ma – ed è qui uno dei punti cruciali del saggio di Maddalena – non è la proprietà privata limitata dagli interessi pubblici.
La prospettiva va ribaltata.
È il territorio nel suo complesso un bene appartenente alla collettività (come sostenevano già i romani), essendo il territorio il luogo nel quale si esercita la sovranità popolare.
E ciò determina, scrive Maddalena, una prevalenza giuridica dell’interesse pubblico su quello privato.
Detto in altri termini (sperabilmente non troppo elementari): se in qualunque modo si tocca il territorio sono gli interessi pubblici che vanno considerati più di quelli privati.
Il libro di Maddalena ripercorre in modo assai coinvolgente la storia di come il territorio sia stato considerato un bene collettivo ed enumera le norme giuridiche che hanno supportato questa concezione.
Dall’età classica alla nostra Costituzione.
Inoltre il libro è percorso dall’idea di quanto sia necessario riferirsi a questi principi nella pratica legislativa, in quella politica e in quella amministrativa.
Qui non è possibile neanche sintetizzare tale ricchezza di documentazione, salvo sottolineare come il saggio di Maddalena segni un punto fermo della saggistica dedicata al territorio ed al paesaggio.
E nelle battaglie per la loro tutela.>>
Sul sito internet della Donzelli Editore il 6 marzo 2014 è stato pubblicato un compendio o riassunto del libro che ne fa la seguente sinossi.
<<Passione civile e competenza giuridica si fondono in questo contributo alla riflessione sui beni comuni.
Con rigore e lucidità, non perdendo mai di vista l’obiettivo di dare al suo lavoro massima concretezza, il giurista Paolo Maddalena pone il problema nel quadro sconcertante dell’attuale crisi, mettendo in luce come crisi ambientale e crisi finanziaria abbiano una causa comune: la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.
Come già diceva Roosevelt in una relazione al Congresso degli Stati Uniti nel 1938: “la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico“. Di qui l’importanza di distinguere la proprietà comune o collettiva, che ha il suo fondamento nella “sovranità”, dalla proprietà privata, che ha il suo fondamento nella “legge”, ristabilendo un equilibrio che negli ultimi decenni di storia italiana è stato tutto sbilanciato a favore della proprietà privata.
L’autore rileva con forza la precedenza storica della proprietà collettiva del territorio sulla proprietà privata e la prevalenza giuridica della prima sulla seconda, sancita dalla stessa Costituzione.>>
Sul quotidiano l’Unità del 6 marzo 2014 (pag. 17) è stato pubblicato un articolo di Salvatore Settis dal titolo “Il paesaggio è di tutti” che fa a sua volta la seguente recensione del libro.
<<UNA NUOVA DIMENSIONE POLITICA AVANZA CON PASSO LENTO, INCERTO, DESULTORIO: è la politica dei cittadini, che si forma e si esercita non necessariamente contro, ma sicuramente malgrado la politica dei politici di mestiere.
Forse in nessuna democrazia quanto in Italia vediamo oggi la «politica militante» «trasformarsi da munuspublicumin una professione privata, in un impiego», secondo la desolata profezia di Piero Calamandrei.
La politique politicienne diventa anzi anche troppo spesso uno strumento, ora inconsapevole ora cinicamente complice, al servizio della devastazione delle istituzioni e dello Stato mirata alla spartizione delle spoglie, al feroce saccheggio di risorse comuni e pubbliche per il vantaggio dei pochi.
Ma «politica » dovrebbe invece essere, non solo per etimologia ma anche per le ragioni della storia e dell’etica, prima di tutto un libero discorso da cittadino a cittadino: un discorso sulla polis, dentro la comunità dei cittadini e a suo beneficio.
Nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più urgente che i cittadini si impegnino in quanto tali, e non per ambizioni, patteggiamenti e scambi di potere e di carriera, in una riflessione alta, non macchiata da personali interessi, sui grandi temi del bene comune, dei diritti della persona, della costruzione del futuro per le nuove generazioni.
Davanti al neo-assolutismo di un’economia che degrada perfino gli esseri umani a meri fattori di costo, costringendoli a nuove forme di servitù e condannando alla disoccupazione le «generazioni perdute» dei giovani, è sempre più essenziale il richiamo alla polis (cioè alle comunità di cittadini) come spazio di riflessione, di discussione, di progetto e di resistenza che esalti e consolidi le libertà personali mentre costruisce una lungimirante etica pubblica.
Ma il bene comune è oggi sempre più spesso accantonato come un ferro vecchio, e in nome delle logiche di mercato cresce ogni giorno l’erosione dei diritti, si consolida la struttura autoritaria dei governi, la loro funzione ancillare rispetto ai centri del potere finanziario e bancario, «stanze dei bottoni» totalmente al di fuori di ogni meccanismo democratico di selezione, al riparo da ogni controllo, al di sopra di ogni regola, di ogni legalità, di ogni sanzione.
«Mai nella storia l’umanità è stata di fronte a un’alternativa così radicale: o cambiare profondamente i valori della nostra civiltà o perire», ha scritto in un suo libro recente Heiner Geissler, deputato Cdu per 25 anni, ministro in un Land e poi nel governo federale, e infine segretario generale della Cdu (1977-89)1, che nel nuovo scenario economico e politico ha profondamente modificato le proprie idee, come su una drammatica via di Damasco.
Politica, cittadinanza, scontro frontale fra le ragioni del mercato e i principi del bene comune: queste le coordinate entro le quali Paolo Maddalena ha composto questo suo libro.
Il carattere squisitamente urbano di alcune grandi proteste popolari degli ultimi anni, da Madrid (Puerta del Sol) a New York (Zuccotti Park) ha almeno due matrici, anche se non tutti ne sono consapevoli.
Prima di tutto, la forte tematica del diritto alla città non solo come spazio urbano ma per il necessario equilibrio, dimensionale e strutturale, fra il tessuto delle architetture e delle strade e la dignità personale dei cittadini.
A quasi cinquant’anni dal Droit à la ville di Henri Lefebvre (1968, ma prima dei moti parigini del Maggio), questa riflessione aveva bisogno di un radicale ripensamento davanti al disfacimento della forma urbana che la generò e all’insorgere delle megalopoli, le immense conurbazioni formatesi al servizio di altrettante spietate macchine produttive.
Rebel Cities. From the Rightto the City to othe Urban Revolution di David Harvey (Verso, 2013) ci offre oggi una nuova cornice di pensiero e di categorie descrittive per dare al diritto alla città, attraverso l’universo dei beni comuni, la nuova dimensione di una cittadinanza consapevole dei propri diritti sovrani: primo passo per intendere come, perché e da chi essi sono calpestati, e per organizzare una riscossa.
La seconda matrice è più remota: ed è l’antica arma dell’azione popolare, che già nel diritto romano rappresentava al massimo livello la dignità personale del cittadino, conferendogli il potere di agire contro le istituzioni in nome del bene comune, contro le mutevoli leggi in nome di uno stabile Diritto intessuto di profondi legami sociali e di alti principi etici.
Non insisto qui su questo tema, al quale è dedicato un mio libro recente (Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 2013); se non per ricordare il filo rosso che lo riconnette al diritto di resistenza del cittadino, quale ricorre in alcune antiche Costituzioni, per esempio in quella della Repubblica Partenopea (1799) che all’art. 15 lo definisce «il baluardo di tutti i diritti».
È un diritto che ricompare oggi insistentemente sulla scena, riarticolato secondo i linguaggi della adversary democracy, e cioè della necessaria dinamica fra gli organi della democrazia rappresentativa e il diritto di parola dei cittadini (singoli o associati).
Perché in uno Stato moderno è cruciale «l’idea che il popolo sovrano conservi un potere negativo che gli consente di vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori» (così Nadia Urbinati).
Queste due matrici del nuovo dissenso (diritto alla città e azione popolare) hanno in comune un punto essenziale, il richiamo ad alti principi etico- politici contro la contingenza di norme concepite al servizio del potere.
Nello scenario italiano di oggi, questo aspro contrasto, evidenziato dal continuo ricorso a norme efferate non solo ad personam ma contra cives, prende la forma di un richiamo alla Costituzione della Repubblica.
In essa troviamo il coerente manifesto di uno Stato fondato sul bene comune e non sul profitto dei pochi; sulla dignità della persona e non sulla sua oppressione; sul diritto al lavoro e non sull’«austerità » che condanna alla disoccupazione; sulla cultura che progetta il futuro e non su una pretesa «stabilità» che di fatto paralizza il paese.>>