Articolo di Giorgio Nebbia pubblicato con questo titolo il 29 settembre 2014 sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” e sul sito “Eddyburg”.
Se non fosse una cosa così seria verrebbe quasi da sorridere a pensare alle migliaia di persone che ogni anno da venti anni si trascinano da un paese all’altro a discutere senza risultati su come fermare i peggioramenti climatici.
Da Berlino, a Kyoto nel 1997, a Marrakesh, a New Dehli, a Nairobi, alla fascinosa Bali, a Cancun, alla favolosa Doha, a Lima nel Peru, con un supplemento a New York la settimana scorsa.
Sono ministri, capi di governo, funzionari ministeriali, esperti, ambientalisti e soprattutto lobbysti, quei funzionari che le grandi industrie mandano in giro ad accertarsi che non venga presa qualche decisione che danneggi i loro affari.
Perché di soldi e di merci e di affari, si tratta.
Il peggioramento del clima, che da anni è sotto i nostri occhi, con piogge quando dovrebbe esserci il sole, con grandinate quando dovrebbe piovere gentilmente, con siccità nei suoli agricoli, in attesa che improvvise tempeste li riempiano di acqua, con tranquilli fiumiciattoli che allagano intere città, è dovuto al cambiamento della composizione chimica dell’atmosfera provocato dalle attività “economiche” umane.
La quantità dell’anidride carbonica CO2 presente nell’atmosfera è aumentata, in cinquanta anni, da 2400 a 3000 miliardi di tonnellate, con un inesorabile continuo aumento annuo di circa 15 miliardi di t; è questo gas, insieme ad alcuni altri “gas serra”, che trattiene sulla superficie dei continenti e degli oceani una crescente frazione della radiazione solare.
Da un parte all’altra del pianeta, terre e mari vengono così scaldati e si alterano i cicli naturali di evaporazione e di condensazione dell’acqua e la circolazione del calore attraverso gli oceani.
La modificazione chimica dell’atmosfera è direttamente proporzionale ai consumi delle fonti di energia fossili, petrolio, carbone e gas naturale, le quali a loro volta servono per fabbricare e tenere in moto tutte le meraviglie della società moderna: automobili e materie plastiche, aerei e telefoni cellulari, cemento e condizionatori d’aria, perfino prodotti agricoli e zootecnici che forniscono il cibo quotidiano.
Una qualche attenuazione della crisi si potrebbe avere piantando più alberi, i quali “portano via” un po’ della CO2 dell’atmosfera, tanto che è stato inventato un meccanismo economico per cui chi immette CO2 nell’atmosfera può continuare ad inquinare pagando qualche paese sottosviluppato perché pianti un po’ di alberi, una specie di commercio delle indulgenze.
Purtroppo la crisi climatica viene aggravata perché, in molti paesi poveri, su grandi superfici le foreste vengono tagliate per recuperare terreni agricoli e pascoli e legname e per aprire miniere, nella speranza di guadagnare qualche soldo e qualche posto di lavoro.
In tutte le conferenze internazionali sul clima i governanti da venti anni ripetono le stesse cose; analizzano le cause, ormai notissime, del riscaldamento globale, e dichiarano con fermezza che ciascun paese ha intenzione di limitare le emissioni di “gas serra” compatibilmente con le necessità economiche, cioè mai.
Le economie di tutti i paesi, di quelli di antica industrializzazione (del primo mondo), di quelli del secondo mondo di recente industrializzazione e di quelli del terzo mondo, poveri e poverissimi, vogliono più cibo, più acqua, più energia, più merci, tutte cose che inevitabilmente comportano un aumento dell’inquinamento ambientale e non solo di quello responsabile dei peggioramenti climatici.
I governanti di alcuni paesi, come quelli europei, promettono di introdurre innovazioni tecnologiche “verdi” per diminuire le emissioni di gas serra, limitandole ai valori di qualche anno fa; ma anche così la quantità di gas serra che si accumulano nell’atmosfera — ed è la loro quantità totale che conta ai fini del riscaldamento globale — aumenta.
Poco favorevoli a forti limitazioni del consumo di combustibili sono i paesi come India e Cina e anche i paesi poveri che chiedono ai paesi ricchi, Stati Uniti ed Europa, forti inquinatori, di dare per primi il buon esempio limitando le loro emissioni.
I mutamenti climatici hanno un duplice effetto: costano soldi, pubblici e privati, a causa dei danni apportati dalle frane e dalle alluvioni, dalla distruzione dei raccolti, e provocano l’aumento dei prezzi delle merci.
Ma sono anche fonti di violenza e di dolori umani; milioni di persone, soprattutto dai paesi più poveri, emigrano dalle terre rese sterili dalla siccità, o sommerse dalle acque, ma trovano le porte sbarrate dall’egoismo dei paesi più ricchi che, con i loro consumi enormi, sono stati la vera causa delle loro disgrazie climatiche.
Il problema è aggravato dal fatto che sta inesorabilmente aumentando il numero di persone che aspirano alla crescita economica.
Secondo recenti previsioni delle Nazioni Unite la popolazione mondiale sta passando dagli attuali 7 a dieci o più miliardi di persone nei prossimi decenni.
Persone che sono consumatori affamati di cibo e acqua e di merci essenziali, ma avidi anche di merci inutili offerte da quella stesse imprese, più o meno verdi, che dichiarano a gran voce quanto amano il pianeta.
È inevitabile che la popolazione mondiale aumenti ancora per molti anni, fonte di ulteriori conflitti per spazio e materie prime scarsi, di avvelenamento e di mutamenti della stessa struttura chimica, fisica e biologica del pianeta.
Potrà andare avanti a lungo questa corsa di corridori ciechi, incapaci di vedere verso quali crisi planetarie stanno andando?